la libertà non ha appartenenza, è conoscenza, è rispetto per gli altri e per sé

"Chi riceve di più, riceve per conto di altri; non è né più grande, né migliore di un altro: ha solo maggiori responsabilità. Deve servire di più. Vivere per servire"
(Hélder Câmara - Arcivescovo della Chiesa cattolica)

domenica 29 novembre 2009

?Silvio, rimembri ancora?



Dom. 29.11.2009 - Da "il Fatto Quotidiano" di oggi, di Marco Travaglio.

" Ora i pompieri sparsi su tutti i colli alti, medi e bassi diranno che è stata l’ennesima gaffe, l’ennesima battuta. E nessuno oserà porsi una domanda molto semplice: che cosa spinge il presidente del Consiglio a parlare così mentre si riaprono le indagini a suo tempo archiviate per strage, mafia e riciclaggio?

Nel momento in cui i fantasmi del suo passato inconfessabile tornano a presentargli il conto, avrebbe tutto l’interesse a scrollarseli di dosso con una forte dichiarazione antimafia, o con una mossa concreta, tipo quella suggerita (e subito rimangiata) dal ministro Alfano sulla riapertura delle carceri di Pianosa e Asinara per i boss al 41 bis. Invece, proprio ora, torna a parlare come un mafioso, minacciando di “strozzare chi ha fatto la Piovra e chi scrive libri sulla mafia”. In attesa che li minacci di scioglierli nell’acido (almeno quelli rimasti in vita: ai De Mauro, ai Fava e ai Rostagno ha già provveduto Cosa Nostra), qualcuno dovrà pur domandarsi il perché. xxx

xxx E’ la prova, casomai ve ne fosse bisogno, del fatto che la trattativa continua. Ancora una volta chi smise di piazzare bombe nel 1994, in cambio di promesse ben precise, fa sapere di essere stanco di aspettare. Così, mentre tutti si affannano a smentire e a ridicolizzare le rivelazioni di Spatuzza, arriva il migliore riscontro logico al suo racconto sul recente sfogo dei fratelli Graviano: “O cambia qualcosa, oppure dovremo andare a parlare con i giudici…”. Il tempo stringe, la Seconda Repubblica si sta squagliando come la prima e il tam tam di radio-carcere è sempre lo stesso: “Iddu pensa solo a Iddu”. Séguita a usare la sua maggioranza bulgara per farsi le leggi per sé, ma agli amici degli amici chi ci pensa? Lo scudo fiscale, l’asta dei beni sequestrati, i progetti sul concorso esterno sono utilissimi ai mafiosi che stanno fuori. Ma a chi sta dentro da tre lustri chi ci pensa? Ci vuol altro che le visitine in carcere dell’on. Betulla. E’ un dialogo in codice, quello fra Iddu e gli amici degli amici, che dura da 15 anni. Era cominciato, almeno in pubblico, il 25 maggio 1994, agli albori del primo governo Berlusconi. Riina sparò dalla gabbia: “C’è uno strumento politico ed è il Partito comunista. Ci sono i Caselli, i Violante, questo Arlacchi che scrive i libri... Il nuovo governo si deve guardare dagli attacchi dei comunisti”.

Berlusconi e i suoi tele-sgherri partirono subito all’assalto della procura di Caselli che osava processare Andreotti e Carnevale. Poi, il 15 ottobre ’94, il premier dichiarò: “Speriamo di non fare più queste cose sulla mafia come la Piovra, un disastro in giro per il mondo. C’è chi dice che c’è la mafia. Non so fino a che punto. Cos’è la mafia? Un centinaio di persone”. Sei giorni dopo Riina plaudì: “Ha ragione il presidente Berlusconi, queste cose sono invenzioni da tragediatori che screditano l’Italia e la nostra bella Sicilia. Ma quale mafia, quale Piovra, sono romanzi. Andreotti è un tragediato come sono tragediato io. E Carnevale più tragediato ancora. I pentiti accusano perché sono pagati”. Nel 2001 governo Berlusconi II. Di lì a poco Bagarella tuona contro i politici che “non mantengono le promesse”, poi lo striscione allo stadio di Palermo: “Berlusconi dimentica la Sicilia. Uniti contro il 41 bis”. Il 4 settembre 2003 il premier dichiara allo Spectator: “I giudici sono matti, mentalmente disturbati, antropologicamente diversi dal resto della razza umana”. Lo diceva già Luciano Liggio a Biagi: “Quando il giudice mi ha interrogato, mi sono accorto che mi trovavo di fronte a un ammalato. Se dietro a varie scrivanie dello Stato ci sono degli psicotici la colpa non è mia. Perché non fanno delle visite adeguate a questa gente prima di affidarle un ufficio?”. Il 9 aprile 2008, vigilia del governo Berlusconi III, la celebre uscita su Mangano “eroe”. Ora ci risiamo. C’è un solo modo per levare ogni speranza ai mafiosi e dissipare i sospetti sulla trattativa ancora in corso: che qualche istituzione, magari la più alta, metta a tacere il premier con parole chiare, nette e definitive. Purtroppo, finora, ha parlato per zittire i magistrati. " xxx

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Un marziano a Roma



Dom. 29.11.2009 - Dal Blog Di Beppe Grillo (28.11.2009).

" C'è un marziano a Roma. Si chiama Giorgio Napolitano. Di professione fa il presidente della Repubblica. Quando si sveglia monita. Quando monita lo fa spesso con la magistratura. Chiede moderazione. Rispetto delle regole. Non monita quando i giudici vengono rimossi o attaccati. Per De Magistris, Forleo, Apicella neppure un sospiro. E' vittima invece di amorosi sensi per il presidente del Consiglio. xxx

xxx In due fanno 158 anni, una buona panchina al parco con i piccioni. Con Berlusconi ha firmato il lodo Alfano, la Corte Costituzionale lo ha bocciato. Lui è rimasto imperturbabile come deve essere un Grande Notaio della Repubblica.
Nel suo curriculum vanta un appello ad abbassare i toni sulle puttane di Palazzo Grazioli durante il G8, ma anche un invito vigoroso a non lavare i panni sporchi italiani al Parlamento Europeo. Indimenticabile un caffè in piazzetta a Capri con Bassolino e la moglie di Mastella. Da non sottacere la sua presenza alla prima della Scala nel giorno del rogo della Thyssen. Un marziano che in gioventù fece parte del GUF, il Gruppo Universitario Fascista, ma che, come comunista, anni dopo, appoggiò i carri armati sovietici in Ungheria con le immortali parole: "L'intervento sovietico ha non solo contribuito a impedire che l'Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione, ma alla pace nel mondo".
In Parlamento dal 1953 come deputato vive di soldi pubblici da prima dello Sputnik e di Gagarin. Difensore della stabilità del governo di un corruttore (Mills), puttaniere (D'Addario), frequentatore di mafiosi (secondo le testimonianze di un plotone di pentiti), acquisitore con destrezza della Mondadori (per corruzione di giudici), piduista (tessera 1816). La stabilità per lui è un bene supremo. Il governo può essere rovesciato solo dal voto. Ma il voto si basa sull'informazione di cui dispone un cittadino. E l'informazione è in mano a Berlusconi. E allora? "Meglio tirare a campare che tirare le cuoia" come disse Andreotti. In futuro, nei libri di Storia, verrà ricordato come "Il Napolitano del Lodo Alfano", una legge che poneva lui e altri tre italiani al di sopra della legge. L'ultimo monito del marziano è severo, alto, quasi nobile come il suo aspetto da migliorista: "Non si può abbattere un governo che ha i numeri". E che numeri! " xxx

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venerdì 27 novembre 2009

La nostra Repubblica è in pericolo



Ven. 27.11.2009 - Dal sito di "MicroMega", di Paolo Flores d'Arcais, l'anticipazione del testo della nota ai lettori che apre il nuovo fascicolo di MicroMega in edicola da oggi.

Intanto il Presidente della Repubblica, di fronte ad un primo ministro che si sottrae da anni alla Giurisdizione (non vuole rispondere in tribunale di ciò di cui è accusato), che evoca (ieri) la guerra civile, ultimo atto eversivo di tanti già inanellati, pare andare oggi addirittura in suo soccorso (e ne ho sconforto): "Sento il bisogno di dire qualcosa in questo particolare momento. L'interesse del Paese richiede che si fermi la spirale di una crescente drammatizzazione, cui si sta assistendo, delle polemiche e delle tensioni non solo tra opposte parti politiche ma tra istituzioni investite di distinte responsabilità costituzionali". xxx

xxx "Va ribadito - aggiunge il presidente - che nulla può abbattere un governo che abbia la fiducia della maggioranza del Parlamento, in quanto poggi sulla coesione della coalizione che ha ottenuto dai cittadini-elettori il consenso necessario per governare. E' indispensabile che da tutte le parti venga uno sforzo di autocontrollo nelle dichiarazioni pubbliche, e che quanti appartengono alla istituzione preposta all'esercizio della giurisdizione, si attengano rigorosamente allo svolgimento di tale funzione". "E spetta al Parlamento - conclude Napolitano - esaminare, in un clima più costruttivo, misure di riforma volte a definire corretti equilibri tra politica e giustizia".

?Ma se qualcuno ha ottenuto la maggioranza dei consensi elettorali, può forse fare di questo Paese, della Carta costituzionale su cui poggia, di noi tutti, ciò che più gli aggrada?

?Ma se il presidente del consiglio risulta implicato, ormai da anni, in numerosi procedimenti penali portati avanti, nel tempo, da decine di magistrati, diversi tra loro per funzione, luogo di lavoro, competenze; è forse colpa di questi magistrati "incontrare" il nome di Berlusconi, o sarà invece un bene/dovere inderogabile accertare le responsabilità degli indagati/imputati, qualsiasi sia il loro ruolo sociale?

?Quali sono questi magistrati che non si starebbero attenendo rigorosamente allo svolgimento della funzione? ?Le fantomatiche toghe rosse evocate da Berlusconi? Cioè ogni magistrato che si occupa (per dovere d'ufficio) del cittadino Silvio Berlusconi (e/o dei suoi sodali). Corte costituzionale compresa!

?I corretti equilibri tra politica e Giustizia, di cui dovrebbe occuparsi il Parlamento, siamo certi che non si trasformeranno, oggi come ieri, nell'ennesima legge ad personam? I precedenti ci sono tutti.
La nostra Costituzione già tutela e presidia a sufficienza questo rapporto (politica - giurisdizione), proviamo a farla rispettare, lo dobbiamo a noi stessi e a tutti coloro che hanno lottato strenuamente per darci questo gioiello legislativo.

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" Questo numero di MicroMega esce in un momento drammatico per la storia della nostra Repubblica. La volontà di calpestare la Costituzione da parte di Berlusconi è ormai irrefrenabile e senza più alcuna foglia di fico. Viene detto apertamente, con totale impudicizia, che Berlusconi non deve essere processato, costi quel che costi.

Ora, un politico «legibus solutus», sciolto da dovere di obbedire alle leggi, significa l’abrogazione pura e semplice della democrazia liberale e il ritorno al regime vigente in Europa tre secoli fa. Di fronte a tanta enormità lascia sgomenti la pochezza delle reazioni, dell’indignazione, della decisione a mobilitarsi.

La Repubblica è in pericolo, e sentiamo il segretario del Pd gingillarsi per settimane in distinzioni da azzeccagarbugli sulla partecipazione ad una manifestazione che ha la più semplice e doverosa delle parole d’ordine, «ora basta!», e il più moderato e irrinunciabile dei contenuti, la difesa della Costituzione (naturalmente, speriamo che quando questo numero uscirà, Bersani abbia maturato una scelta meno cerchiobottista).

E vediamo accreditato come salvatore della patria l’onorevole Gianfranco Fini, che nei confronti dell’eversore Berlusconi si limita ad alternare gesti di fronda e riaffermazioni di fedeltà, come se fosse possibile contemporaneamente stare dalla parte della legalità (e magari di una «destra alla Borsellino»!) e non rompere e contrapporsi a chi della legalità fa strame da anni, e ormai con una accelerazione esponenziale.

Ecco perché abbiamo appoggiato toto corde la manifestazione che tra una settimana si svolgerà a Roma, nata sul web per iniziativa di alcuni cittadini senza appartenenze di partito, e oscurata su tutti i media che contano (tv-unica, ormai in stile putiniano).

Ecco perché ci siamo rivolti – con esito davvero mediocre e che non va a onore del giornalismo di questo paese – a tutti i principali quotidiani italiani, perché offrissero agli organizzatori della manifestazione uno spazio fisso sui rispettivi siti, che almeno in piccola parte risarcisse la democrazia del vulnus della disinformacija televisiva permanente.

Speriamo che una grandiosa riuscita della manifestazione del 5 dicembre sia l’inizio di una fase nuova nella resistenza democratica al regime putiniano di Berlusconi, speriamo soprattutto che le centinaia di migliaia di cittadini che si stanno mobilitando non pensino di delegare ai partiti i momenti successivi, anche istituzionali, anche elettorali, della lotta in difesa della Costituzione.

Non rinuncino a inventare le forme organizzative – inedite, a geometria variabile, non partitocratiche – per continuare a essere i protagonisti di questo impegno. Finché c’è lotta c’è speranza. " xxx

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giovedì 26 novembre 2009

Schifani e la casa della mafia



Gio. 26.11.2009 - Da "il Fatto Quotidiano", di Marco Lillo (20.11.2009), ripreso da "MicroMega", ignorato dalla stampa di regime: quasi nessuno grida "il re è nudo", e sarebbe così facile, immediato, istintivo, tali sono le continue evidenze. Verrà il giorno in cui non riusciremo a comprendere come ciò sia stato possibile, sotto gli occhi ciechi dei più, per il ventre satollo, la codardia e la complicità interessata di pochi.

" C’è un palazzo a Palermo, vicino allo stadio della Favorita, che spiega meglio di un trattato la mafia e l'antimafia. I suoi nove piani sono un monumento alla prevaricazione dei forti sui deboli, dei corrotti sugli onesti. Sono stati costruiti in spregio a ogni norma con la complicità della politica, calpestando con la ruspa i diritti di due donne inermi. xxx

Ogni muro, ogni mattone, profuma di mafia. Chi ha eseguito i lavori e chi li ha diretti, chi ha fornito il calcestruzzo e chi ha fatto gli scavi, chi ha guadagnato vendendo gli appartamenti e talvolta anche chi li ha comprati, è legato da vincoli di sangue o di cosca con i padrini più blasonati di Palermo: Madonia, Bontate, Pullarà, Guastella, Lo Piccolo. Il capo dei lavori, Salvatore Savoca, è stato strangolato perché non voleva dividere il boccone di cemento con un clan più forte del suo: i Madonia. L'assessore che ha dato la licenza è stato condannato per le mazzette ricevute in cambio della concessione. Il costruttore Pietro Lo Sicco è stato condannato per mafia e corruzione ed è in galera. Il palazzo è stato confiscato e le vittime, Rosa e Savina Pilliu, hanno ricevuto in affitto dallo Stato l'appartamento nel quale dormiva Giovanni Brusca, l'uomo che ha schiacciato il telecomando della strage di Capaci.

Sembrerebbe una storia semplice nella quale è persino troppo facile scegliere da che parte stare. E invece la storia di Piazza Leoni dimostra che la vita è fatta di scelte, mai scontate. Questo palazzo incrocia il destino di due uomini famosi e distanti tra loro: Renato Schifani e Paolo Borsellino. Il primo (prima che le procure e i tribunali accertassero le responsabilità del costruttore corruttore e mafioso) ha messo a disposizione la sua scienza per sostenere il torto del più forte. Il secondo, nei giorni più duri della sua vita, ha trovato il tempo per ascoltare le ragioni dei deboli. Quel palazzo è ancora in piedi grazie anche ai consigli legali, ai ricorsi e alle richieste di sanatoria dello studio legale Schifani-Pinelli del quale il presidente del senato è stato partner con l'amico Nunzio Pinelli negli anni chiave di questa vicenda, prima di lasciare il posto al figlio Roberto. Mentre Schifani combatteva in Tribunale per Lo Sicco, il giudice Paolo Borsellino, trascorreva le ore più preziose della sua vita per ascoltare le signorine Pilliu.

Incroci del destino

E c’è una coincidenza che fa venire i brividi perché proprio da Piazza Leoni, dove allora sorgeva lo scheletro del palazzo abusivo, sarebbe partita al’alba del 19 luglio del 1992 la Fiat 126 imbottita con 90 chilogrammi di tritolo che ha ucciso il giudice istruttore. Le signorine Pilliu non lo sapevano ma quelli che si nascondevano dietro il costruttore che le minacciava stavano preparando le stragi. Chissà se Borsellino aveva intuito qualcosa di strano dietro quel palazzo. Una cosa è certa, se sei giorni prima di morire, 50 giorni dopo la morte di Falcone, un uomo come lui perdeva tempo a parlare con queste signorine doveva esserci una ragione.

Forse allora, 17 anni dopo, vale la pena di riascoltare il racconto di Savina e Maria Rosa Pilliu.

Sorelle-coraggio

Queste due signorine di origine sarda possedevano due casupole all’interno di un filarino di ex fabbriche riadattate ad abitazione. Il padre era morto giovane ma le sorelle e la mamma, a costo di mille sacrifici, erano riuscite ad andare avanti grazie a un negozio di generi alimentari a due passi da piazza Leoni. Tutto scorreva liscio finché la mafia non mise gli occhi sul terreno accanto alle casette. “All’inizio si fece avanti Rosario Spatola”, raccontarono le sorelle quel giorno a Paolo Borsellino. Al giudice si accesero gli occhi. Spatola è stato uno degli uomini più ricchi della Sicilia, il costruttore della vecchia mafia di don Stefano Bontate, sterminata da Riina negli anni ottanta, l’amico del banchiere Michele Sindona, che aveva ospitato nella sua villa fuori Palermo. Nel settembre del 1979, Spatola si presenta nel negozio della famiglia Pilliu in via del Bersagliere e fa la sua proposta per comprare le casette. Ovviamente non voleva tenerle ma distruggerle. Per costruire un palazzo più grande sul suolo di fronte, eliminando le case e il problema delle distanze. L’idea era buona ma due settimane dopo, proprio per l’inchiesta nata dai contatti tra Sindona e la mafia, Spatola finisce in galera. Il terreno passa dopo un paio di giri a Gianni Lapis, consulente di Vito Ciancimino, per finire nel 1984 a un costruttore ignoto: Pietro Lo Sicco, un benzinaio legato al boss della mafia perdente, Stefano Bontate.

Più andavano avanti nel loro racconto, più snocciolavano nomi e date con il loro eloquio antico, e più il giudice Borsellino si interessava alla loro vicenda. Spatola, Ciancimino, Lo Sicco. Anche il nome del costruttore probabilmente diceva qualcosa a Borsellino. Era stato arrestato da Giovanni Falcone, ma poi prosciolto. Lo Sicco era legatissimo a Stefano Bontate però quando il vecchio boss viene ucciso passa con i vincenti. Quando rileva il terreno cerca subito di comprare le casette di fronte per ampliare lo spazio e la cubatura. Con le buone o le cattive convince tutti a vendere. Nessuno osa dirgli di no. Tranne le sorelle Pilliu che non vogliono svendere. A questo punto succede l’incredibile: Lo Sicco dichiara al comune di avere anche le particelle catastali della mamma delle sorelle Pilliu. Ovviamente sotto c’è una mazzetta all’assessore all’urbanistica che frutta una licenza che prevede due cose connesse: la possibilità di costruire un palazzo con tre scale e sette piani (che poi diverranno nove) a condizione però che prima la società di Lo Sicco, Lopedil, abbatta le casette che però, piccolo particolare, non sono della Lopedil. Il 3 marzo del 1990 la società ottiene la concessione edilizia. Le Pilliu denunciano alla Prefettura e al Comune l’abuso ma non si muove nulla. Anzi si muovono le ruspe. La Lopedil tira su il palazzo e butta giù le casette. Le ruspe demoliscono quelle accanto e i piani superiori del fabbricato. Gli appartamenti delle Pilliu (che per fortuna dormono altrove) si ritrovano senza tetto: c’è solo il pavimento del piano superiore a difenderli dalle intemperie. Le sorelle chiamano i vigili urbani, la Polizia e i Carabinieri ma nessuno interviene. Il comandante dei vigil arriva sul luogo e sembra possa essere il salvatore delle sorelle ma dopo aver controllato le carte dice: “sono in regola e io posso fermare un automobilista senza patente non uno con una patente falsa”.

La minaccia

Le signorine cercano di opporsi fisicamente ma Lo Sicco le minaccia e le offende dicendo a Rosa Pilliu: “Vattene da qui perchè se no ti dò un timpuruni. Senti a me, vai a vendere i tuoi pacchi di pasta al negozio che tra un po’ non potrai vendere più nemmeno quelli”. È in questa fase che le sorelle, disperate, chiedono aiuto a Borsellino. Si vedono l’ultima volta il 13 luglio, il magistrato le rinvia a due giorni dopo. Ma è il giorno di Santa Rosalia, le Pilliu non vogliono perdersi la festa alla “Santuzza” e chiedono di fissare un appuntamento più in là. Borsellino si impegna a richiamarle. Sei giorni dopo morirà in via D’Amelio.

Tritolo

Il giudice non poteva sapere che proprio gli uomini interessati a quel palazzo stavano preparando la sua uccisione e le stragi del 1993 a Roma, Firenze e Milano. Giovanni Brusca, il boss che ha spinto il pulsante del telecomando della strage di Capaci, l’uomo che ha ordinato ed eseguito un centinaio di omicidi, tra i quali quello del bambino Santino Di Matteo, colpevole solo di essere figlio di un pentito, ha raccontato: “Gli scavi a Piazza Leoni li ha fatti Pino Guastella (arrestato come capo mandamento Palermo centro nel 1998 Ndr). Poi io mi sono comprato un appartamento, tramite Santi Pullarà, che mi ha fatto fare un buon trattamento. Ci ho dormito pochi giorni però. Lo avevo fatto intestare a Gaspare Romano. Costui poi nel '95 fu scoperto dalla DIA che lo pedinava e mi sono fatto ridare i soldi indietro, perché a quel punto a me l'appartamento non serviva più. Siamo andati a vederlo con Leoluca Bagarella (il cognato di Riina che ha guidato la mafia durante la stagione delle stragi del 1993), io con una macchina e lui con un'altra, di sera. Più che altro per scegliere i piani e vedere gli appartamenti come erano combinati, perché ancora erano grezzi, in costruzione. Cioè dovevamo riuscire a capire come funzionavano, se c'era l’ascensore, se c'erano scale. Una cosa che io avevo chiesto, di particolare, se era possibile poter fare l'ascensore come come quello che avevo visto nella casa di Ignazio Salvo (uno dei cugini esattori di Salemi, legati alla Dc andreottiana e arrestati da Falcone) che io ho frequentato molto. Lui quando arrivava con la sua macchina, prendeva l'ascensore e con una chiavetta saliva fino all'attico. E quindi era un suo privilegio, e io chiesi questa cosa ma non era realizzabile perché il garage era per tutti, non solo ed esclusivamente per me”. Poi però i boss capirono che due latitanti per un palazzo era troppo. “Bagarella era interessato pure ed è venuto a vederlo con l'intenzione di comprare. Quella sera ci sono andato con Gioacchino La Barbera (altro autore della strage di Capaci, ndr). Lo abbiamo scelto sia io che Bagarella perché era un posto di élite a Palermo. Cioè Piazza Leoni, era un investimento. Poi io pensavo successivamente di farci la latitanza, ma questo era un problema mio”. Anche Gioacchino La Barbera, pentito dopo aver partecipato alla strage di Capaci conferma e aggiunge particolari: “Ho accompagnato varie volte sia Leoluca Bagarella che Giovanni Brusca a piazza Leoni. Brusca sul posto con una persona responsabile del cantiere stava cercando di fare modificare un appartamento per essere comunicante. Perché stava studiando un'intercapedine per trascorrere la latitanza e in caso di un sopralluogo delle forze dell'ordine riuscire a nascondere o a scappare”.

L’arsenale e gli inquilini

Nel palazzo c’era anche un appartamento con un muro finto dietro il quale si nascondevano le armi del clan Madonia. Insomma le riunioni di condominio in quello stabile non devono essere una passeggiata. Nei piani alti abitano la figlia di Stefano Bontate, e hanno abitato entrambe le figlie del costruttore mafioso Pietro Lo Sicco. Nell’attico più grande e bello c’è una famiglia legata al defunto boss Stefano Bontate (detto il principe di Villagrazia) i Marsalone, il cui patriarca Giuseppe è morto ammazzato a fine anni ottanta. Tra quelli che ci hanno abitato, non mancano però anche i professionisti della “Palermo bene”. Al quinto piano c’è l’avvocato Antonino Garofalo, socio di Renato Schifani in una società fondata nel 1992 e mai attivata, la Gms. La casa è affitatta e se ne cura l’avvocato ma è intestata alla sua compagna russa. L’appartamento accanto a quello che fu di Brusca era occupato dallo studio di Salvatore Aragona, il medico amico di Totò Cuffaro e già condannato per avere fornito al boss di San Giuseppe Iato un alibi. Molte di queste persone, avevano stipulato con Pietro Lo Sicco un contratto preliminare di compravendita. Quando il 17 settembre del 1993 il Comune annulla la concessione edilizia e blocca tutto.

Cavilli e millimetri

A questo punto entra in scena l’avvocato Renato Schifani. Insieme al suo collega di studio, Nunzio Pinelli, presenta ricorso al Tar. Pinelli va addirittura in tv con Lo Sicco a difendere il palazzo contro una coraggiosa giornalista, Valentina Errante, che aveva scoperto l’abuso. Schifani partecipa anche a un sopralluogo nel 1993 nel quale si accerta che “il distacco non deve essere inferiore a metri 12,75 e in effetti risulta pari a metri 7,75”. Ciononostante lo studio Schifani-Pinelli verga uno splendido ricorso alato. La tesi sostenuta è che la demolizione delle casette da parte di Lo Sicco “avrebbe solo anticipato gli esiti di un intervento di pubblica utilità, cui istituzionalmente era ed è tenuta l’Amministrazione Comunale”. In sostanza Lo Sicco è un benemerito che si è sostituito alle ruspe del comune. Se ha finto di essere proprietario ed è passato come un rullo sulle case altrui non lo ha fatto certo per vendere a clienti facoltosi e amici mafiosi bensì per ridare decoro alla zona. Meriterebbe quasi un premio. Incredibilmente il Tar il 23 gennaio del 1995 accoglie le tesi di Schifani e Pinelli e annulla la revoca della concessione, che così rivive. Le Pilliu sono distrutte. Lo Sicco esulta. Il Consiglio di Giustizia Aministrativa della Regione Sicilia, il Cga, però accoglie l’appello e, nonostante l’opposizione dell’avvocato Renato Schifani, annulla la concessioine. Per sempre. O almeno così dovrebbe essere.

La provvidenza di B.

Perché il condono Berlusconi del 1994 prevedeva in un comma nascosto che, in caso di annullamento della concessione, si poteva presentare domanda di sanatoria anche dopo la scadenza dei termini. Non solo: per questa sanatoria straordinaria non c’era nemmeno il limite di cubatura abusiva di 750 metri. Una pacchia. La società Lopedil fa subito domanda di sanatoria. Succede però un imprevisto: il nipote di Pietro Lo Sicco, Innocenzo, pur non essendo stato mai nemmeno indagato, trova il coraggio di dividere la sua strada da quella della famiglia e racconta ai magistrati la storia dello zio e del palazzo di piazza Leoni. Innocenzo Lo Sicco, che oggi è un dirigente di un’associazione antiracket, lancia un paio di frecciate a Schifani durante un’udienza del processo nel 2000. Sulla concessione di piazza Leoni la sua deposizione è netta: “l’impresa di mio zio, la Lopedil, non era in possesso di tutti i titoli di proprietà del terreno ma comunque è riuscito ad ottenere la concessione grazie ai buoni uffici che mio zio intratteneva con personale dell’edilizia privata. Il progetto è stato approvato dalla commissione presieduta dall’onorevole Michele Raimondo, in assenza del titolo di proprietà. L’accordo di cui io ero a conoscenza era che l’assessore Raimondo faceva approvare il progetto e, al rilascio dell’autorizzazione il signor Lo Sicco avrebbe pagato una, non so se definirla una tangente o un riconoscimento all’assessore di 20-25 milioni di lire”. Grazie a queste dichiarazioni Pietro Lo Sicco è stato condannato per truffa e corruzione. Poi il nipote continua il suo racconto confermando quello delle Pilliu: “dopo che il signor Pietro Lo Sicco aveva la concessione ha cominciato i lavori di sbancamento e demolizione e ci furono reazioni da parte dei proprietari. Principalmente da parte delle signorine Pilliu e di un certo Onorato che, addirittura, mi ha quasi menato. Le reazioni ci sono state: intervento della forza pubblica, Carabinieri, 113, Polizia giudiziara, tutto c’è stato in quel periodo. Era un viavai di forza pubblica con i proprietari che facevano le loro giuste lamentele e che volevano bloccare la concesione e che si ritrovavano in questa situazione che non riuscivano a bloccare”. Come è finita? Chiedono i giudici a Innocenzo. “Io so quello che mi ha detto Renato Schifani. L'avvocato mi disse come è stato salvato l'edificio facendolo entrare in sanatoria. Schifani era il mio avvocato. Pietro Lo Sicco si rivolse a lui per la pratica del palazzo di Piazza Leoni perché sapeva dei buoni uffici che intratteneva Schifani con l'allora assessore Michele Raimondo e con l'allora dirigente Vicari. Schifani era una persona di massima competenza nelle pratiche edili, (....) aveva una conoscenza sia in termini professionali, sia in termini diretti personali con i personaggi dell'edilizia privata per il papà che ha lavorato tutta la vita all'interno dell'edilizia privata. Quindi è la persona adatta”. Schifani entra in politica a livello locale in Forza Italia e sarà senatore solo dal 1996. Ma Lo sicco spiega che l’opera di lobby dell’attuale presidente del senato avrebbe avuto un effetto “sulla concessione edilizia ottenuta l’avvocato Schifani ebbe a dire a me, suo cliente, che aveva fatto tantissimo ed era riuscito a salvare il palazzo di Piazza Leoni facendolo entrare in sanatoria durante il Governo Berlusconi perché fecero una sanatoria e lui è riuscito a farla pennellare in quello che era l'esigenza di questi edifici di Piazza Leoni. Quindi era soddisfattissimo e me lo diceva con orgoglio di essere riuscito a salvare questa vicenda. Perché lo diceva a me? Perché io avevo messo a conoscenza l'avvocato Schifani quando era iniziato il rapporto col signor Lo Sicco di qual era l'iter di quale era stata la prassi, di qual era la situazione di come si era venuta a creare il rilascio della concessione”.

L’inchiesta

Il pm di Palermo Domenico Gozzo ha aperto un fascicolo generico, senza indagare Schifani, per le accuse di Lo Sicco. Ma ha ritenuto che non ci fosse nulla di rilevante. Nel procedimento penale non sono state considerate penalmente rilevanti nemmeno le parole di Innocenzo Lo Sicco sui costruttori Antonino Seidita e Giuseppe Cosenza. Questi due imprenditori, entrambi amici di Lo Sicco, entrambi considerati legati ai fratelli Graviano ed entrambi clienti dello studio Schifani-Pinelli, seconco Innocenzo Lo Sicco svolsero un ruolo nella vicenda. Cosenza sarebbe stato incaricato dall’assessore di chiedere a Seidita di chiedere a sua volta un rialzo della mazzetta: da 20 milioni di lire a un attico. Ma Pietro Lo Sicco non accettò e si fermò al versamento previsto nella prima offerta. Pietro Lo Sicco è stato condannato per la vicenda amministrativa a due anni e due mesi per corruzione, e truffa. Mentre per i suoi legami con la mafia è stato condannato a sette anni. Entrambe le sentenze sono passate in giudicato. Anche sul fronte amministrativo la vittoria delle sorelle Pilliu è definitiva. Nel novembre del 2002 anche il Tribunale civile di Palermo ha statuito che il palazzo non rispetta le distanze dalle casupole delle signorine e deve essere abbattuto. Per l’esattezza dovrebbero essere “tagliati” dalla costruzione otto metri e sei centimetri al piano terra e cinque metri e 81 centimetri ai piani superiori.

Ad personam

Si attende l’Appello ma nella finanziaria del 2000 un emendamento del senatore Michele Centaro di Forza Italia ha introdotto una norma che sembra fatta su misura per sanare la situazione di piazza Leoni: l’amministratore giudiziario può chiedere la sanatoria del palazzo confiscato per mafia e vendere ai terzi che hanno comprato. “Ricordo che era un problema sentito anche dai magistrati”, dice Centaro. Sarà. Comunque la figlia di Bontate, come gli altri, potrebbe comprare. I terzi acquirenti sono difesi dall’avvocato Pinelli ma resta il problema delle distanze. Almeno per ora. Nel gennaio del 2005 sono crollate le casette delle Pilliu. Senza tetto, con l’acqua che entrava da tutte le parti, hanno ceduto. Un giudice ha pensato bene di aprire un processo. Non contro Lo Sicco. Ma contro le sorelle Pilliu, per crollo colposo. "
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sabato 7 novembre 2009

Il Cristo crocifisso, ogni giorno



Sab. 07.11.2009 - La Corte di giustizia europea si è pronunciata sulla presenza del Crocifisso nelle aule scolastiche, ed ha giustamente ritenuto che vada contro il principio di libertà religiosa.
Grande levata di scudi da parte di molti che, pur professandosi cattolici, appaiono assolutamente incuranti del radicamento o meno del messaggio evangelico nella vita concreta della comunità, e nella propria; essi sono oggi fermamente "indignati" (è gente sensibile, incline all'indignazione, fosse anche quella dei due pesi e delle due misure).
Guardo a costoro, penso a quel Cristo che amo, e mi viene un sospetto: ?non sarà che la rappresentazione di quell'Uomo inchiodato, appeso su ogni muro, possa rassicurare molti circa la fine che fa chi lotta per l'Uguaglianza degli esseri umani, per la Giustizia, per l'Amore?! ?Vorranno, chissà, che rimanga esposto come monito?! ...Non dico che sia così, ma il dubbio mi pare non manifestamente infondato!

A seguire, riporto uno scritto di Paolo Farinella, prete (06.11.2009), tratto da "MicroMega". xxx

" I giornali del giorno 5 novembre 2009, riportano la foto di Berlusconi che tiene in mano un Crocifisso, abbastanza grande. Le cronache dicono che glielo abbia dato il prete di Fossa, nell’ambito della consegna delle case. Se c’è una immagine blasfema è appunto questa: colui che ha varato una legge incivile contro i «cristi immigrati», che parla di «difesa dei valori cristiani». Un prete che consegna il crocifisso a Berlusconi è uno spergiuro come e peggio di lui. Povero Cristo! Difeso da una massa di ladroni che non solo lo beffeggiano, ma lo crocifiggono di nuovo con la benedizione del Vaticano, che per bocca del suo esimio segretario di Stato, ringrazia il governo per il ricorso che presenterà alla Corte di appello di Strasburgo.

Possiamo dire che c’è una nuova «Compagnia di Gesù» fatta di corrotti, di corruttori, di ladri, di evasori, di mafiosi, di alti prelati còrrei di blasfemìa e di indecenza, di atei opportunisti, di cultori di valori e radic(ch)i(o) cristiani … chi prepara la croce, chi le fune, chi i chiodi, chi le spine, chi l’aceto … e i sommi sacerdoti a fare spettacolo ad applaudire. Intanto sul «povero Cristo» di nome Stefano Cucchi, morto per mancanza di «nutrizione e idratazione», da nessuno è venuta una parola di condanna verso i colpevoli di omicidio, nemmeno dai monsignori che hanno gridato «assassino» al papà di Eluana Englaro.

Povero Cristo, difeso dai preti come suppellettile e raccoglitore di polvere nei luoghi pubblici e da tutti dimenticato come Uomo-Dio che accoglie tutti e dichiara che sono beati i poveri, i miti, coloro che piangono, i costruttori di pace, i perseguitati, gli affamati! Povero Cristo, difeso dagli adoratori del dio Po e di Odino che ne fanno un segno di civiltà, mentre lasciano morire di fame e di freddo poveri sventurati in cerca di uno scampolo di vita. Povero Cristo, difeso dalla “ministra” Gelmini che trasforma il Crocifisso in un pezzo di tradizione “de noantri”, esattamente come la pizza, il pecorino, i tortellini. Povero Cristo, difeso da Bertone che lo mette sullo stesso piano delle zucche traforate.

Povero Cristo! Gli tocca ringraziare la Corte di Strasburgo, l’unica che si sia alzata in piedi per difenderlo dagli insulti di chi fa finta di onorarlo. Signore, pietà!

Guardando a quel Cristo che è il senso della mia vita di uomo e di prete, ho la netta sensazione che dalla sua comoda posizione di inchiodato alla croce, dica: Beati voi, difensori d’ufficio... beati voi che ho i piedi inchiodati, perché se fossi libero, un calcio ben assestato non ve lo leverebbe nessuno.

(6 novembre 2009) " xxx

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