la libertà non ha appartenenza, è conoscenza, è rispetto per gli altri e per sé

"Chi riceve di più, riceve per conto di altri; non è né più grande, né migliore di un altro: ha solo maggiori responsabilità. Deve servire di più. Vivere per servire"
(Hélder Câmara - Arcivescovo della Chiesa cattolica)

domenica 31 maggio 2009

La mattanza dello stato parallelo, passando per Capaci e via D'Amelio



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sabato 30 maggio 2009

La vicenda "papi" vista con occhi campani - ISSO, ESSA E 'A MALAVITA



Sab. 30.05.2009 - Dal sito "La Voce delle Voci", uno scritto di Rosita Praga (29.05.2009).

" A Napoli gli investigatori della Direzione Antimafia stanno indagando sui possibili collegamenti fra Elio Benedetto Letizia, il padre dell'ormai celebre Noemi, e il ceppo che a Casal di Principe ha visto per anni egemone il clan capitanato da Armando, Giovanni e Franco Letizia, gruppo di fuoco del boss Giuseppe Setola, area Bidognetti. Tutti alleati degli Scissionisti di Secondigliano. Qui, nell'attesa di sviluppi giudiziari, proviamo a mettere in fila alcune impressionanti coincidenze, con le tessere di un puzzle che vanno al loro posto una dopo l'altra. Ed un Paese che, se le ipotesi investigative fossero confermate, si troverebbe a dover raccogliere la sfida finale. xxx

Potrebbe suonare solo come un'omonimia, un cognome strano, uguale al nome di una donna. E che ricorre. Poi il cerchio delle coincidenze comincia a stringersi. E prende corpo l'ipotesi che Benedetto Letizia detto Elio, padre dell'aspirante starlette Noemi, lungi dall'essere mai stato autista di Craxi o militante di Forza Italia o qualsiasi altra boutade messa in circolazione, sia originario dello stesso ceppo di Casal di Principe dal quale provengono Franco e Giovanni Letizia, gruppo di fuoco del boss Giuseppe Setola. Lo stesso commando capace di sparare in fronte ed ammazzare sei extracomunitari in un colpo solo per avvertire gli altri che, se si intende trafficare droga in zona, bisogna sottostare alle regole. E pagare.

Ma chi e' veramente Benedetto-Elio Letizia? Da Castelvolturno all'Agro Aversano fino a Secondigliano, molti lo sanno fin dall'inizio di questa storia. Ma non parlano. Tacciono di fronte ai tanti cronisti venuti da ogni parte del mondo. Pero' a Enrico Fierro, inviato dell'Unita', qualcuno ha detto: lascia stare, su questa storia meglio non metterci le mani. Bolle, scotta. Il cinquantenne Benedetto Letizia, noto finora al Comune di Napoli (dove e' in servizio) piu' che altro per un vecchio inciampo giudiziario - fu arrestato nel 1993 nell'ambito di un'inchiesta sulle compravendite di licenze commerciali - per tutti e' un uomo tranquillo. E anche la gazzarra di visure camerali e catastali messa su dai giornali, non ha potuto scoprire altro che modesti immobili intestati a Noemi e un paio di societa' dedite al commercio di profumi. Solo una bufala, allora, la storia della parentela? Non dimentichiamo - dice un attento osservatore di queste dinamiche - che molto spesso i clan si servono proprio di personaggi puliti, o quasi, per tenere i contatti con esponenti delle istituzioni.

A gettare benzina sul fuoco, realizzando la classica excusatio non petita, sono poche settimane fa alcuni giornalisti del casertano. Ventiquattr'ore di fuoco, quel 19 maggio. Dopo la cattura in Spagna del boss Raffaele Amato, a Secondigliano un blitz porta in manette quasi cento persone ritenute affiliate agli Scissionisti. In nottata arriva l'arresto a San Cipriano d'Aversa del boss Franco Letizia, uno fra i cento latitanti piu' ricercati d'Italia. E siamo proprio negli stessi giorni in cui, fra gossip e cronaca, i giornali, le tv e il web sono letteralmente invasi da quel nome: Letizia. Alle 12 e 18 in punto nelle redazioni arriva un lancio Ansa. E' firmato dalla giovane corrispondente casertana Rosanna Pugliese: nessuna parentela - si legge - tra l'arrestato Franco Letizia ed il papa' di Noemi, lo affermano gli inquirenti che operano nel casertano. Che bisogno c'era di quella perentoria smentita, a fronte di una notizia mai data? E soprattutto, perche' rifarsi ad un termine generico come gli inquirenti, senza precisare se si tratta della squadra mobile, della Procura (di Napoli o di Caserta?) oppure di altre forze dell'ordine? Un sito locale, Caserta Sette, non perde l'occasione per rilanciare la non-notizia. E con tono stizzito se la prende con chiunque osi pensare che esista quella parentela.

Mentre scriviamo, alla Voce risulta invece che sono in corso indagini top secret alla Procura di Napoli proprio per accertare il possibile collegamento fra i Letizia di Secondigliano (Benedetto detto Elio, ma anche altri suoi stretti congiunti) e il clan Letizia affiliato ai Casalesi. Un legame che, se fosse accertato, nella vicenda Papi, spiegherebbe tutto. O quasi. Qualcuno, in Campania ed oltre, sa bene da tempo cosa significa pronunciare alcuni grossi nomi. E perche', se telefona uno con quel nome, se si spinge fino a chiedere a un leader politico di mostrarsi alla nazione intera, intervenendo ad una festa di paese, lui potrebbe essere costretto ad acconsentire. Ma in ossequio alla ragion di stato sarebbe obbligato a far credere - perfino alla moglie e ai figli - che si tratti d'una storia di corna e minorenni, piuttosto che rivelare al Paese e al mondo la verita'.

Scrive Fierro sull'Unita' del 22 maggio: La camorra, soggetto da maneggiare con cura in questa storia. Anche se i tanti set di questo reality non aiutano a tenerla a debita distanza. Secondigliano (il quartiere monstre dove i Letizia hanno alcune loro attivita'); Portici, la citta'-quartiere dove vivono Noemi e sua madre, e Casoria, il paesone della festa. In ognuno di questi luoghi i clan hanno un controllo ferreo del territorio. Sanno tutto. Di tutti. In attesa delle conclusioni alle quali giungeranno i pm della Dda, noi qui proviamo a mettere insieme le tessere del puzzle. Che cominciano a combaciare in maniera impressionante. Se risultasse provato il collegamento fra i Letizia, sarebbe allora piu' realistico immaginare quale sia stato il vero motivo di quell'appuntamento cui il premier, suo malgrado, non poteva mancare, pur avendo cercato con ogni mezzo fin dalla mattina - e poi nelle frenetiche telefonate fatte in quei misteriosi 50 minuti di sosta dentro l'aereo, a Capodichino - di sottrarsi. Alla fine va. E resta per quasi un'ora a colloquio riservato - dice chi c'era - con Elio Benedetto Letizia, prima di darsi in pasto ai fotografi.

IL POTERE DI GOMORRA

Troppo forte, il potere d'intimidazione di quella holding multinazionale che, come ci ha raccontato Gomorra, comunica i suoi messaggi attraverso i simboli. L'uomo accusato di essersi portato via la donna di un boss, per esempio, viene crivellato non alla testa o al cuore, ma mmiez e palle; quello che ha tradito gli accordi, facendo catturare uno del clan, dovra' essere incaprettato, legato come un capretto sul banco della macelleria, e fatto ritrovare nella posa piu' grottesca e mostruosa che si possa immaginare per un essere umano. Cosi' anche la presenza fisica di una personalita', in certi luoghi ed occasioni, vale piu' di cento rassicurazioni verbali. Magari arriva a suggello di un condizionamento che durava gia' da mesi. E del quale la bella - e quasi certamente ignara - Noemi non era che un altro segnale. La sua presenza al fianco del primo ministro (come nell'ormai famoso ricevimento di fine anno a Villa Madama) serviva per affermare all'esterno che il rapporto con gli uomini del napoletano e del casertano stava andando avanti.

Del resto, lo strapotere finanziario raggiunto dalle imprese dei clan camorristici - anche attraverso la presenza di loro vertici nelle logge massoniche coperte - praticamente non ha uguali. Lo ha spiegato poche settimane fa Roberto Saviano agli studenti della Normale di Pisa nel corso di una lezione: nessuna, fra le altre mafie del mondo (russa, cinese o slava che sia) e' autonoma rispetto alle cosche italiane. Tutte hanno come modello di partenza Cosa Nostra, Ndrine e Camorra. Ma i gruppi esteri non si sono mai del tutto affrancati: sullo scacchiere internazionale, nei paradisi fiscali, per muovere da un capo all'altro dei contimenti denaro, armi, stupefacenti, organi ed esseri umani, devono sempre e ancora in qualche modo dare conto ai clan italiani.

Dal punto di vista dell'economia criminale, poi, che interi pezzi dell'Italia siano ormai ricattabili da parte dei clan camorristici, non e' una novita'. Una holding multinazionale, ma pur sempre malavitosa; forze strutturate e uomini che, pur trovandosi ormai a gestire le leve del potere finanziario (il giro di affari delle mafie, secondo uno studio recente di Confesercenti, e' pari a 125 miliardi di dollari l'anno, circa il 7% del Pil nazionale), non rinunciano ai vecchi e collaudati metodi per affermare il loro potere. Un commando di fuoco pronto a sequestrare, a sparare in faccia, tenere in ostaggio magari i figli di un alto esponente politico. Ed e' cosi' che possono maturare, per i posti chiave di governo - ad esempio la presidenza di una strategica Provincia o un sottosegretariato - le nomine di personaggi ritenuti gia' nelle lore stesse zone di origine impresentabili, per i legami con la camorra dei loro uomini piu' stretti.

MARONI ALLA CARICA

Come s'inscrive, nello scenario che stiamo ipotizzando, l'autentica impennata nella lotta ai clan camorristici impressa nelle ultime settimane da Roberto Maroni, ministro degli Interni, e da Antonio Manganelli, capo della Polizia? Berlusconi - dice un esperto di intelligence che preferisce restare anonimo - probabilmente sara' presto lasciato al suo destino. Lo dimostra il livello di fibrillazione da cui e' stato colto dopo l'episodio di Casoria, gli errori a raffica, le dichiarazioni avventate. A reggere saldamente il timone dello Stato che non si arrende e' ora il Viminale, da cui non a caso negli ultimi mesi e' partito un pressing senza precedenti nel contrasto ai Casalesi e ai loro alleati, gli Scissionisti di Secondigliano. Operazioni che hanno liquidato quasi interamente il clan Letizia.

L'escalation nella lotta alla malavita organizzata del casertano ha inizio esattamente dopo la strage di Castelvolturno, il 19 settembre dello scorso anno, quando sei nordafricani residenti nella vasta area a rischio della Domiziana, sul litorale di Caserta, vengono massacrati in un raid di camorra teso - si capira' in seguito - a riaffermare il predominio sulla zona del boss dei Casalesi Giuseppe Setola, al cui clan sono affiliati i Letizia. Appena dieci giorni dopo, il 30 settembre, i Carabinieri del comando di Caserta arrestano gli artefici dell'eccidio. Sono Alessandro Cirillo, Oreste Spagnuolo ed il ventottenne Giovanni Letizia, gia' ricercato per un altro omicidio collegato alla connection politica-rifiuti: quello dell'imprenditore Michele Orsi. I militari li sorprendono in due villini di villeggiatura a Quarto, sempre in zona domizia. Secondo il pentito Oreste Spagnuolo - scrivera' Roberto Saviano - Giovanni Letizia quando uccise Michele Orsi indossava una parrucca e ai piedi aveva un paio di Hogan di tela. Poi gli venne fame e andarono a mangiare con Letizia che aveva ancora le scarpe sporche di sangue ma preferiva pulirle con la spugnetta anziche' buttarle. Quando il suo capo chiese perche' perdesse tempo a lavarle rischiando di essere beccato, Giovanni Letizia gli rispose che Orsi non valeva le sue scarpe. 14 gennaio 2009. In un edificio diroccato di Trentula Ducenta, al confine con il Lazio, finisce la latitanza del boss Giuseppe Setola. Con lui viene fermata la moglie, Stefania Martinelli. Fra il 9 e l'11 marzo la Dda partenopea mette a segno un altro colpo mortale per i Casalesi con l'arresto di altri uomini legati a Franco Letizia, cugino di Giovanni, considerato il reggente del clan. Fra loro anche il trentatreenne Vincenzo Letizia detto o schizzato. 3 aprile 2009. La Mobile di Caserta arresta Armando Letizia, 56 anni. Considerato elemento di spicco del clan, Armando e' zio di Giovanni Letizia e padre del latitante Franco. Il cerchio si stringe intorno a quest'ultimo, che sara' tratto in manette il 19 maggio. Ma quella domenica 26 aprile, il giorno dell'arrivo di Berlusconi a Casoria per il compleanno di Noemi, un'altra e piu' rilevante cattura forse e' gia' nell'aria. All'alba del 29 aprile la Direzione Investigativa Antimafia di Napoli sorprende Michele Bidognetti, fratello del boss Francesco Bidognetti (detenuto al 41 bis eppure ancora in grado - secondo gli inquirenti - di impartire ordini), ma soprattutto parente del collaboratore di giustizia Domenico Bidognetti.

Un gruppo criminale strettamente collegato a quello dei Setola e, quindi, ai Letizia. Una storia - fanno notare in ambienti giudiziari del casertano - che puzza lontano un miglio di rifiuti. Non va dimenticato che per i Bidognetti questa e' stata sempre una fra le piu' lucrose attivita'. E che molte operazioni messe a segno recentemente dalle forze dell'ordine nascono dalle rivelazioni su quel maleodorante business rese da una gola profonda del settore come Gaetano Vassallo. Senza contare, su tutto, la presenza degli imprenditori-camorristi del settore rifiuti Michele e Sergio Orsi: il primo ucciso proprio per mano del clan Letizia quando era in procinto di collaborare con la magistratura. Il secondo, arrestato nell'ambito di un'operazione anticamorra di febbraio scorso, era invece stato prosciolto nel 2007 da analoghe accuse. Al suo fianco, come penalista, c'era l'avvocato Ferdinando Letizia dello studio Stellato di Santa Maria Capua Vetere. Casertano, 35 anni, Ferdinando Letizia e' anche consigliere comunale a Castelvolturno e capogruppo della lista Liberamente, sul cui sito internet si esaltano le gesta del leader Silvio Berlusconi. Il colpo inferto ai trafficanti di rifiuti con l'apertura dell'inceneritore di Acerra, il timore di perdere gli appalti da milioni di euro che ruotano intorno all'affare munnezza, potrebbero insomma essere fattori non del tutto estranei al clima rovente delle ultime settimane.

IL MILAN ? ALL'OLIMPIA

Ma torniamo ai segnali. A quegli avvenimenti forse solo in apparenza curiosi che avevano preceduto la famosa sera del 26 aprile. Quella domenica a giocare sul campo del San Paolo c'era stata l'Inter. Ma il 22 marzo a Napoli per una sfida di campionato era sbarcato il Milan. Che per la prima volta aveva abbandonato i consueti, sfavillanti hotel del lungomare partenopeo con vista sul golfo, per andare ad alloggiare in una delle piu' desolate periferie dell'hinterland: Sant'Antimo, Hotel Olimpia. Terra di inceneritori, ecoballe e Cdr. Al confine col triangolo della morte Nola-Marigliano-Acerra. Comune, Sant'Antimo, due volte sciolto per infiltrazioni camorristiche. Area infestata da sversamenti illegali di materiali tossici. E non lontana da quell'agro aversano da cui trae le sue origini il gruppo Setola-Bidognetti-Letizia.

L'Hotel Olimpia rientra nell'impero economico della famiglia Cesaro, che in zona possiede anche l'unico presidio sanitario disponibile per uno fra i territori piu' densamente popolati d'Italia, il Centro Igea, ed una serie di altre lucrose attivita'. Leader della famiglia e' Luigi Cesaro, deputato Pdl, candidato in pole position per la presidenza della Provincia di Napoli. Sui suoi pregressi legami coi clan della zona si soffermava a lungo (come la Voce ha ricordato nel numero di maggio scorso) la relazione di fuoco redatta dai commissari prefettizi inviati a Sant'Antimo dopo lo scioglimento per camorra del 1991.

Ecco i passaggi chiave. I collegamenti di taluni degli amministratori con la malavita organizzata - clan Puca e Verde - si estrinsecano attraverso rapporti di parentela e/o cointeressi in attivita' economiche e patrimoniali. La cointeressenza in attivita' economiche si coglie soffermandosi sugli accordi in materia di appalti fra i clan di Pasquale Puca ed il clan Verde, che operano rispettivamente attraverso le cooperative La Paola e Raggio di Sole, addivenendo in tal modo ad una spartizione dei settori dell'economia locale. Della Cooperativa Raggio di Sole e' socio il consigliere comunale Antimo Cesaro unitamente ai fratelli Raffaele (legale rappresentante) e Luigi. Ancora: Lo stesso consigliere Aniello Cesaro risulta citato a comparire dalla Autorita' Giudiziaria in ordine a molteplici attivita' estorsive messe in atto da Pasquale Puca, capo dell'omonimo clan camorristico operante in Sant'Antimo e Casandrino; risulta avere in atto procedimenti per truffa, interesse privato in atti d'ufficio, omissione in atti d'ufficio e peculato. Diciannove anni dopo, di Luigi Cesaro (e del suo gemello politico Nicola Cosentino, sottosegretario all'Economia), parla Gaetano Vassallo, come ricorda l'Espresso in un'inchiesta di settembre 2008. E qui tornano le coincidenze. Perche' se le verbalizzazioni del pentito dovessero trovare conferma, a favorire l'attivita' imprenditoriale dei Cesaro non sarebbe stato un clan qualsiasi. Ma il gruppo di Francesco Bidognetti, alias Cicciotto e mezzanotte.

IL BOOMERANG

Sto pensando di riferire in aula sul caso Letizia. Ma ci devo riflettere. 23 maggio. E' appena scoppiato il caso Mills (la condanna per corruzione dell'avvocato David Mills, che tira il ballo lo stesso premier) e siamo a poche ore da un altro storico annuncio di analogo tenore: riferiro' alla Camera sulla vicenda Mills. Perche', allora, mentre tutti parlano di Mills, lo stesso Cavaliere torna a porre l'accento sulla storia dei suoi rapporti con Noemi Letizia e la sua famiglia? La risposta potrebbe stare tutta in una ricostruzione dei fatti che comincia a circolare a Napoli. E che trae spunto da quelle mezze frasi dette col cuore in mano prima dal papa' di Noemi (il mio rapporto con Berlusconi? Preferisco non approfondire, siamo legati da un segreto), poi dalla mamma Anna Palumbo: non chiedetecelo, non possiamo dire di piu'.... Dopo la valanga di stridenti contraddizioni abbattutasi sul resoconto che lo stesso Cavaliere aveva voluto rendere negli studi di Porta a Porta (dalla bufala del Benedetto Letizia autista di Craxi, subito sbugiardata dal figlio dell'ex leader socialista Bobo, alle secche smentite di Franco Malvano e Fulvio Martusciello che addirittura - aveva detto il premier a Bruno Vespa - gli erano stati segnalati quella sera da Letizia), ora lo staff del presidente deve mettere a punto una versione inattaccabile. E se colpisse anche i sentimenti, se saltasse fuori una storia di buona sanita', meglio. E' partita cosi' la caccia di alcuni cronisti alle notizie d'agenzia di quel maledetto 29 luglio 2001 quando l'appena diciannovenne Yuri Letizia, fratello di Noemi che in quel periodo prestava servizio militare, perse tragicamente la vita a bordo di una Fiat punto andatasi a schiantare contro gli alberi sulla Salaria. E' stato un articolo di Francesco Lo Sardo sul quotidiano Europa a gettare in campo l'ipotesi: pare sia stato dopo questa tragica morte - scrive il 15 maggio - che, in qualche modo e per qualche speciale ragione, si sia cementato il legame tra il signor Elio Letizia e Silvio Berlusconi. La ricostruzione potrebbe essere gia' pronta: Prima - fa sapere il premier - li lascio andare avanti, perche' cosi' si mostrano per quello che sono. E sara' un boomerang tale che si vergogneranno, e perderanno consenso e la stima degli elettori, perche' in questa vicenda tutto e' piu' che pulito.

Rosita Praga
Fonte: www.lavocedellevoci.it
Link: http://www.lavocedellevoci.it/inchieste1.php?id=211
29.05.2009 " xxx

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venerdì 29 maggio 2009

Il C.S.M. e la corruzione delle parole. A margine dell’impugnazione della sentenza del T.A.R. che ha dato ragione a Clementina Forleo.



Ven. 29.05.2009 - Dal Blog "UGUALE PER TUTTI".

" di Giuliano Castiglia
(Giudice del Tribunale di Termini Imerese)

Avantieri il C.S.M., con la delibera che si può leggere a questo link, ha deciso di proporre appello al Consiglio di Stato contro la sentenza del T.A.R. Lazio che ha annullato il trasferimento d’ufficio della collega Clementina Forleo e di chiedere altresì al Consiglio di Stato di sospendere l’esecuzione di detta sentenza.

Leggendo la delibera, ognuno potrà farsi la sua idea. xxx

Io penso, per le tante ragioni che sono state esposte qui e altrove, che quella adottata dal C.S.M. sia una decisione profondamente sbagliata in diritto e penso altresì che, se dovessero essere accolte le ragioni del C.S.M., si determinerebbe un grave vulnus alla garanzia costituzionale dell’inamovibilità dei magistrati, condizione imprescindibile dell’indipendente, imparziale e corretto esercizio della funzione giurisdizionale – che è costituzionalmente attribuita ai magistrati ordinari soggetti solo alla legge (artt. 101 e 102 Cost.) –, essenziale presidio del fondamentale principio di uguaglianza di tutti davanti alla legge e principale garanzia di effettività dei diritti di tutti.

Infatti, mentre per l’art. 107 della Costituzione “i magistrati sono inamovibili” e, in mancanza del loro consenso, possono essere destinati ad altre sedi o funzioni con decisione del Consiglio superiore della magistratura adottata con le garanzie di difesa stabilite dalla legge e solo per i motivi (pre)stabiliti dalla legge, seguendo l’interpretazione del Consiglio i magistrati potrebbero essere trasferiti per tutti i motivi di volta in volta discrezionalmente (post)ritenuti dal C.S.M..

Sorprendono molte cose nella delibera del Consiglio.

Ci sono delle vere chicche.

Così, il parallelo tra il trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale dei magistrati e quello dei militari lascia davvero senza parole. Il C.S.M. sembra dimenticare che la Costituzione ha previsto l’inamovibilità dei magistrati e non quella dei militari e, evidentemente, omette di interrogarsi sulle ragioni del diverso trattamento riservato agli uni e agli altri.

Lo stesso dicasi per l’esemplificazione della categoria di ipotesi da far tremare i polsi di fronte alle quali il C.S.M. resterebbe disarmato se non si accogliesse la sua tesi.

Il CSM dice che la categoria è “certamente ampia” ma non va oltre due esempi. E, a sentirli, si comprende perché: si va dall’arcifrequente caso del Procuratore della Repubblica di un piccolo centro che si prostituisce [una specie di novello Ermenegildo Morelli] al magistrato sfigato che non paga i suoi debiti di gioco – tassativamente “cospicui” – nei confronti di soggetti estranei agli affari giudiziari di tutto il distretto in cui presta servizio.

Ma, nel fondo del pozzo, c’è che il Consiglio corrompe e annulla le parole.

Ante riforma, l’art. 2 della c.d. legge della guarentigie prevedeva la trasferibilità d’ufficio dei magistrati “quando, per qualsiasi causa anche indipendente da loro colpa non possono, nella sede occupata, amministrare giustizia nelle condizioni richieste dal prestigio dell’ordine giudiziario”; dopo la riforma, invece, solo “quando, per qualsiasi causa indipendente da loro colpa non possono, nella sede occupata, svolgere le proprie funzioni con piena indipendenza e imparzialità”.

Il Consiglio tramuta “qualsiasi causa indipendente da loro colpa” in “qualsiasi causa, indipendentemente da loro colpa”, cioè “qualsiasi causa, a prescindere da loro colpa”, cioè, in definitiva, “qualsiasi causa, anche indipendente da loro colpa”.

Così, nella sostanza, reintroduce d’imperio quell’anche che – come i lettori di questo blog ben sanno – il legislatore aveva espunto per precise ragioni; altrimenti detto, il testo nuovo non gli aggrada e, dunque, opera come se fosse ancora in vigore il vecchio.

Le parole, corrotte, perdono ogni valore, sono annullate. Se “qualsiasi causa indipendente da loro colpa”, infatti, deve leggersi come “qualsiasi causa, anche indipendente da loro colpa”, resta, nella sostanza, solo (si fa per dire) l’onnicomprensiva formula “qualsiasi causa”.

E ciò - ammessa e non concessa l’equivocità del testo vigente - ad onta del fatto che la direttiva della delega (art. 2 co. 6 lett. n della legge 150/05, ) in forza della quale il legislatore delegato ha modificato l’art. 2 legge delle guarentigi fosse quella di “modificar[lo] ... stabilendo che [...] il trasferimento ad altra sede o la destinazione ad altre funzioni possano essere disposti con procedimento amministrativo dal Consiglio superiore della magistratura solo per una CAUSA INCOLPEVOLE tale da impedire al magistrato di svolgere le sue funzioni, nella sede occupata, con piena indipendenza e imparzialità”.

Nell’articolo “Le parole della democrazia”, riportato nel post qui sotto, Gustavo Zagrebelsky scrive: «Le parole, poi, devono rispettare il concetto, non lo devono corrompere. Altrimenti, il dialogo diventa un inganno, un modo di trascinare gli altri dalla tua parte con mezzi fraudolenti. Impariamo da Socrate: “Sappi che il parlare impreciso non è soltanto sconveniente in se stesso, ma nuoce anche allo spirito”; “il concetto vuole appropriarsi del suo nome per tutti i tempi”, il che significa innanzitutto saper riconoscere e poi saper combattere ogni fenomeno di neolingua, nel senso spiegato da George Orwell, la lingua che, attraverso propaganda e bombardamento dei cervelli, fa sì che la guerra diventi pace, la libertà schiavitù, l’ignoranza forza. Il tradimento della parola deve essere stata una pratica di sempre, se già il profeta Isaia, nelle sue “maledizioni” (Is 5, 20), ammoniva: “Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l’amaro in dolce e il dolce in amaro”. I luoghi del potere sono per l’appunto quelli in cui questo tradimento si consuma più che altrove ...».

Spero che l’antico ammonimento di Isaia, in questi tempi in cui si parla anche di modifiche nella composizione del C.S.M. e nei rapporti numerici tra le diverse componenti, possa spingerci tutti a restare più legati al senso proprio delle parole. " xxx

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giovedì 28 maggio 2009

Riscontri incrociati. Brusca, Riina e Ciancimino sanno chi e' il ''terminale'' della Trattativa tra stato e mafia



Gio. 28.05.2009 - Dal Blog di Salvatore Borsellino (27.05.2009).

" di Giorgio Bongiovanni e Silvia Cordella - 27 maggio 2009
La sparizione di documenti importanti è sempre il finale ... ... di ogni delitto eccellente. In questo caso potrebbe essere la premessa di qualcosa di grave che potrebbe accadere.
Per evitare il peggio il sostituto della Dda di Bologna Walter Giovannini ha ottenuto così l’assegnazione immediata di una scorta a Massimo Ciancimino che nei giorni scorsi aveva denunciato la sparizione di un verbale d’interrogatorio e di alcuni promemoria che lui stesso aveva scritto in vista della sua comparsa come testimone chiave al processo Mori – Obinu. xxx

Dopo però nemmeno una settimana dalla disposizione, il comitato per l'ordine e la sicurezza pubblica di Bologna ha indietreggiato e l’altro ieri, con una nota all’agenzia di stampa Ansa, ha rettificato “di non aver disposto alcuna tutela” ma solo “una protezione - su iniziativa del Questore - che sarà trasformata a breve in vigilanza radio collegata”. Uno sbaglio di valutazione o un segnale di discontinuità? Sicuramente una scelta che espone il figlio di don Vito a pesanti conseguenze proprio nel periodo cruciale che precede la sua convocazione in aula nell’ambito del processo sulla mancata cattura di Provenzano nel quale sarà interrogato sulla spinosa questione della Trattativa.

Massimo Ciancimino è un obiettivo sensibile perché è il custode dei molti segreti che legano la vita di suo padre a quella di Bernardo Provenzano. Per lui la prima condanna a morte la decretò negli anni ’90 Totò Riina quando seppe del suo ruolo di tramite nei contatti tra suo padre e i carabinieri. Anche il boss di Trapani Matteo Messina Denaro con lui avrebbe un conto in sospeso per il mancato pagamento di una tangente nel territorio di Alcamo. Oggi però il pericolo più forte è rappresentato dalle dichiarazioni che sta rilasciando alle Dda di Palermo, Caltanissetta e Catania nelle quali, su suo input, hanno avviato e riaperto una serie di inchieste destinate ad allargarsi a settori della politica e del mondo imprenditoriale che hanno stretto rapporti con la mafia.

La revoca della scorta dunque si traduce in un segnale negativo non solo per lui ma anche per coloro che, impegnati nell’accertamento di verità scomode in queste attività investigative, colgono la drammatica assenza delle istituzioni. “In quei documenti vi erano una serie di appunti di cui avrei dovuto parlare con i magistrati di Palermo – ci aveva detto al telefono Ciancimino junior – ma, rientrato da un mio recente viaggio, mi sono accorto che quei fogli erano spariti”. La cosa inquietante è che chi è entrato in casa non ha forzato la porta. “E’ rimasto tutto in ordine”. Massimo Ciancimino sa che chi ha fatto irruzione nella sua abitazione ha certamente voluto dargli un messaggio preciso per scoraggiarlo a parlare. D’altra parte, da quando ha deciso di collaborare con le procure siciliane, malgrado i pedinamenti, le lettere anonime, la benzina sull’auto e la siringa di propano davanti casa, il figlio dell’ex Sindaco di Palermo non ha retrocesso di un solo passo. Le sue intenzioni erano quelle di raccontare, dopo tanti anni di silenzio, tante verità. La più delicata è certamente quella sulla famosa Trattativa a cui nel 1992 il padre partecipò come mediatore tra il Ros dei Carabinieri e Cosa Nostra.

L’appuntamento in aula del 23 maggio scorso era stato fissato dalla quarta sezione penale di Palermo per sentirlo proprio in merito a questi temi ma alla fine la sua deposizione è stata rinviata.

In compenso la Corte ha ascoltato i pentiti Ciro Vara e Giovanni Brusca ed entrambi hanno confermato quanto già in passato avevano detto. Brusca, in particolare, ha riferito alcuni dettagli vissuti in quei primi mesi del ’92 quando le condanne della Cassazione del primo maxiprocesso erano divenute definitive con la sentenza del 30 gennaio di quell’anno. Un tradimento che aveva spinto Salvatore Riina a ideare la strategia stragista per reagire con violenza a certe promesse che non erano state mantenute. Per questo fece uccidere Salvo Lima, il suo referente della democrazia cristiana vicino ad Andreotti e Giovanni Falcone, suo acerrimo nemico. Il capo di Cosa Nostra voleva spingere lo Stato a trattare e così avvenne, secondo il collaboratore, subito dopo la strage di Capaci.

Successivamente alla morte di Falcone Riina arrivò “con aria soddisfatta” dicendo che “qualcuno dello Stato” “si era fatto sotto” e che, indicandolo con le mani, “gli aveva fatto un papello tanto”. “Cioè – spiega Brusca - tutta una serie di richieste per migliorare la nostra condizione”. L’obiettivo principale dei capi mandamento a livello regionale era infatti quello di ottenere la revisione del maxi uno ma anche l’alleggerimento di alcune leggi sulla confisca dei beni e l’applicazione dei benefici carcerari previsti dalla legge Gozzini. Altre pretese invece erano state probabilmente ritenute inaccettabili.

Per questo a un certo punto la trattativa aveva accusato uno stop. Siamo a cavallo delle due stragi e questa risposta negativa trovò “Riina un pò nervoso perché la trattativa si era arenata”. Inaspettatamente anche Brusca venne fermato durante la preparazione dell’attentato all’on. Mannino. Un delitto che rientrava nella strategia iniziale di Riina per controbattere alle promesse mancate dei politici. Dopo qualche giorno esplose la bomba in via d’Amelio in cui morirono il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta. Era il segno di un cambiamento nel programma stragista. Ma da cosa nasceva l’esigenza di eliminare il giudice? La risposta è da ricercare in quell’intreccio atavico tra potere mafioso, politico e imprenditoriale che in quella stagione sfociò in una trattativa che pezzi dello Stato intavolarono con Cosa Nostra.

Una negoziazione di cui Brusca conosceva le fasi per averle apprese da Riina in persona ma che non portò avanti direttamente perché “nelle mani di altri”. Solo in seguito al suo arresto Brusca, durante una successiva fase processuale, apprese che il tramite della Trattativa era Vito Ciancimino in contatto con carabinieri del Ros, precisamente col generale Mario Mori e il capitano De Donno. La cosa però non lo sorprese affatto, Brusca le sue deduzioni le aveva già fatte. I militari glielo confermarono soltanto in sede di dibattimento, con la differenza che posdatarono quel “dialogo” con Cosa Nostra dopo luglio del ’92, motivandolo con la loro intenzione di catturare Riina e Provenzano.

Una data che però non coincide con le dichiarazioni dell’ex boss di San Giuseppe Jato e nemmeno con quanto sostiene Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito, il quale colloca la trattativa al mese di giugno del 1992. Resta da chiarire chi potrebbe essere stato il terminale di questa Trattativa. Brusca, con un colpo di scena in udienza, ha detto di conoscere questo nome perché glielo disse Riina. Nonostante le insistenti domande della difesa di Mori e Obinu (avv. Milio e Musco) e quelle del Pubblico Ministero, rappresentato in aula dall’aggiunto Antonio Ingroia e dal sostituto Nino Di Matteo, il collaboratore si è trincerato dietro la formula della facoltà di non rispondere. Il motivo? Indagini in corso secretate. L’unica frase che la difesa riesce a scucirgli è “feci quel nome in tempi non sospetti, in fase d’indagine”. In effetti, tornando indietro negli anni Brusca parlò solo una volta di quel personaggio. Lo fece durante un dibattimento sulle Stragi, affermando che l’identità del terminale la disse ai procuratori Chelazzi e Grasso, in occasione di un interrogatorio in carcere, dopo l’approvazione della legge che limita il tempo delle dichiarazioni dei pentiti a 180 giorni. Così Brusca esordiva: la «buonanima» del procuratore Chelazzi (stroncato da un infarto il 17 aprile 2003) e il procuratore Grasso «mi hanno fatto fare dei ragionamenti in base a chi poteva essere colui che faceva da tramite per Salvatore Riina in questi contatti e io ho detto subito di Antonino Cinà, di Ciancimino e altri... Comunque anche se lo immaginavo non avevo le prove. Trovandomi a Palermo poi per altri problemi giudiziari leggo da Repubblica (che mi attacca quando conviene, sono bravo e non sono bravo, dipende dalle circostanze...) e trovo riscontro a quello che io avevo detto e viene fuori a chi Salvatore Riina aveva mandato il famoso papello per ottenere i benefici per Cosa Nostra (…)».

Anche se allora Brusca non fece quel nome direttamente indicò con precisione che era contenuto nell’articolo scritto da Viviano in cui l’unico nome che emerge è quello dell’attuale vicepresidente del CSM Nicola Mancino. Scriveva infatti Viviano: «I due pm (Grasso e Chelazzi citati da Brusca ndr.) sono gli autori del verbale di interrogatorio che è ancora secretato ed in quel verbale Brusca fa riferimento all’ex Ministro degli Interni, Nicola Mancino che s’insediò al Viminale il primo luglio 1992, proprio il giorno in cui Borsellino interrogava a Roma il pentito Gaspare Mutolo, (interrogatorio ndr) che interruppe per qualche ora per recarsi proprio al ministero dell’Interno. Mancino smentì però l’incontro con il giudice Borsellino sostenendo di non sapere nulla della trattativa».

Episodi che potrebbero essere invece attualizzati dalle rivelazioni di Massimo Ciancimino, testimone diretto di quella trattativa di fine primavera ‘92 e che potrebbero coinvolgere l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino il quale non si esclude possa averne fatto cenno al giudice Paolo Borsellino. Se così fosse sarebbe di rilevanza cruciale l’annotazione dell’agenda grigia del giudice nella quale alle ore 18.30 del 1 luglio 1992, diciotto giorni prima della sua morte, aveva segnato l’incontro col neo-ministro da cui era ritornato sconvolto. Un appuntamento che l’attuale vicepresidente del Csm non ricorda perché “fra tante strette di mano e persone che quel giorno (ad appena un mese dalla strage di Capaci non ricordava il volto di Borsellino, ndr) andavano ad omaggiarlo per il suo insediamento al Viminale non sa se ci fosse anche il giudice di Palermo”. Ricordi di Mancino a parte, l’unica cosa che sembra ormai certa è che la trattativa, contrariamente a quanto sostengono Mori e De Donno, a quella data era già ampiamente avviata.
E siccome don Vito non era un ingenuo né tantomeno uno sprovveduto non avrebbe mai portato avanti un affare di quella portata se non avesse avuto delle garanzie che i due militari non fossero portatori di un mandato superiore che ne garantiva il suo delicato intervento. E allora se è plausibile ritenere che Borsellino quel primo luglio 1992 fosse venuto a conoscenza di una negoziazione tra pezzi delle Istituzioni e Cosa Nostra e ancora più certo che lui mai e poi mai, soprattutto dopo la morte di Giovanni Falcone, avrebbe potuto accettare un simile compromesso. In questo modo, come deducono varie sentenze, Borsellino si sarebbe messo di traverso ostacolando quel dialogo che irrimediabilmente causò l’accelerazione della sua morte, progettata in tutta fretta al posto di quella dell’on. Mannino. Ipotesi che, chissà, potrebbero trovare conferma nei documenti scottanti che Ciancimino potrebbe aver ereditato dal padre e rispondere alle tante, troppe domande che tutt’oggi non trovano risposte acclarate.

Per questo la sparizione di alcuni fascicoli nell’appartamento di Massimo Ciancimino desta grande preoccupazione così come la notizia della scorta, revocata non si sa bene perché, dopo nemmeno una settimana dalla sua applicazione. Episodi che minano la serenità del testimone eccellente. E forse è questo ciò che qualcuno vorrebbe ottenere, proprio adesso che le indagini sulla mancata cattura di Provenzano nel 1995 stanno prendendo vigore a Palermo così come quelle sulla strage di via d’Amelio a Caltanissetta. Non è una coincidenza che proprio Salvatore Riina nelle sue dichiarazioni spontanee del 2004, di fronte alla Corte che lo processava, aveva chiesto come mai nessuno fosse ancora andato a chiedere a Massimo Ciancimino il perché Mancino sapesse, cinque o sei giorni prima del suo arresto, che il capo di Cosa Nostra sarebbe stato catturato. Riina, anticipando anche le dichiarazioni del figlio di don Vito, rivela l’esistenza di una trattativa in cui lui stesso sarebbe stato “venduto” per poi venire usato come capro espiatorio per coprire le responsabilità di alti poteri che, come legittimamente lasciano supporre le sentenze, concorsero alla determinazione della strage di Capaci e quella di Via d’Amelio.

“Signor Presidente – aveva esordito Riina – le voleva dire che io in questo processo (per le stragi del continente, ndr) mi domando che cosa ci sto a fare. Perché praticamente io…quando è successo di queste stragi di Firenze, di Roma, di Milano io sono stato arrestato il 15 gennaio del ’93.. e quando sono stato arrestato mi hanno portato in isolamento a Roma. Quindi non avevo contatti con nessuno… telecamere dietro la porta, dietro le feritoie. Mi hanno messo le guardie penitenziarie quindi 5 anni e mezzo ho avuto sempre questa situazione per i primi mesi, sette, otto mesi fino al mese di luglio io non sentiva televisione, telegiornali, non sapeva se era vivo o se era morto cioè ero isolato da tutti. (…) Ecco perché io mi domando “io perché sono imputato in questo processo?” Allora mi si dice in un primo tempo mandante, poi mi si dice in un’altra maniera, ora all’ultimo nella sentenza mi si dice “ideatore”. Quindi io sono ideatore, condannato per ideatore, però signor Presidente la verità è che forse allo Stato servo per parafulmine perché tutto quello che succede in Italia e che è successo in Italia all’ultimo si imputa a Riina. Riina è parafulmine e Rina sta bene per tutte le pietanze per tutte le processe che si vengono fatte a Riina o ai compagni di Riina. Quindi che cosa succede che in questa situazione qua, di Firenze, ma se io sono lì che non ho contatti con nessuno a chi lo mandai a dire? come lo mandai a dire? come sono ideatore? Come lo ideai? (…) Poi ci sono i discorso degli altri processi. Per dire io mi trovavo nel processo Falcone. Nel processo Falcone c’è un aereo nel cielo che vola nel mentre che scoppia la bomba, questo aereo non si può trovare di chi è, chi è … e allora quindi si condanna Riina perché certamente Riina fa comodo. Mi troviamo nel processo di Borsellino e lì sul Monte Pellegrino c’è l’hotel e nell’hotel ci sono i servizi segreti e quando scoppia la bomba i servizi segreti scompaiono e non vengono mai citati perché si condanna Riina… perché l’Italia così è combinata! Cioè quando Scalfaro dice ‘io non ci sto’, io devo dire signor Presidente: io non ci sto. Io non ci sto a queste condanne fatte così. Queste sono condanne fatte a tavolino. Non sono condanne perché si cerca la verità perché io ho commesso questi delitti o ho fatto commettere questo delitto. Sono delle cose … delle trovate assurde… perché se lei vede il Di Carlo viene creduto quando accusa me o ad altri ma quando il Di Carlo dice che ad andare a trovarlo nel carcere dell’Inghilterra i servizi segreti americani e quelli italiani e quell’dell’Inghilterra perché volevano aiuto ad uccidere Falcone lui ci ha nominato a suo cugino quello che si venne trovato poi impiccato lì al carcere di Roma. Quindi che cosa succede che il cugino… poverino si è messo a disposizione però poi ci ha lasciato le penne… (…). C’è Brusca che dice che ai Boboli feci mettere un proiettili e Riina non sapeva niente però tutte cose vanno avanti signor Presidente… sa quando l’avvocato chiede come testimonio il figlio di Ciancimino. Il figlio di Ciancimino non è stato mai citato, mai sentito. Perché non si sente dire il figlio di Ciancimino che era in contatto con il colonnello dei carabinieri che era allievo di quelli che mi hanno arrestato? Perché il figlio di Ciancimino che collaborava con sto colonnello non ci dice perché cinque, sei giorni prima l’onorevole Mancino ci dice: ‘Riina questi giorni viene arrestato’. Ma a Mancino chi ce lo disse cinque, sei giorni prima ‘Riina veniva arrestato’? E allora ci sono questi signori che mi ha venduto e allora cercare la verità non è che significa (…. ) La verità sta bene a tutti signor Presidente, può stare pure bene a me ma perché mi si deve condannare a me per cose che io non so, non ho commesso e non ho fatto. Io signor Presidente ringrazio lei e la Corte per avermi sentito però mi sento la persona additata per dire ‘tu sei il parafulmine d’Italia. Tu devi pagare il conto di tutti”. " xxx

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mercoledì 27 maggio 2009

Il processo nascosto


Marcello Dell'Utri -->

Mer. 27.05.2009 - Da "L'Unità" (10.01.2009).

" Il processo nascosto
di Nicola Biondo

Tutte le anomalie di cui sono stato testimone mi hanno fatto capire che Provenzano non volevano catturarlo perché aveva un compito ben preciso». A parlare è un ufficiale dei Carabinieri in pensione, il colonnello Michele Riccio. Il particolare è stato rivelato ieri nel corso di un processo che dal luglio scorso si svolge a Palermo: un processo importante di cui poco o nulla è stato finora detto. Un «processo nascosto». Proviamo a capire perché. xxx

Sul banco degli imputati siedono due pezzi da novanta delle forze dell'ordine: il generale Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu. Il primo, ex-capo del Ros dei carabinieri e del Sisde, oggi dirige l'ufficio sicurezza del comune di Roma. Il secondo, anche lui del Ros, è un ufficiale di grande esperienza, molto noto negli ambienti dell'Arma. La procura di Palermo li accusa di un reato infamante: favoreggiamento dell'ex primula rossa di Cosa Nostra Bernardo Provenzano. Secondo la Procura, Mori e Obinu avrebbero omesso di catturarlo benché fossero stati informati dal colonnello Riccio della sua presenza a un summit che si tenne il 31 ottobre del 1995 in località Mezzojuso, trenta chilometri a sud di Palermo.

La notizia era stata data al colonnello Riccio - che è il principale testimone dell’accusa - da Luigi Ilardo, un uomo d'onore della famiglia nissena dei Madonia che all’inizio del 1994 aveva deciso di collaborare con la giustizia ed era diventato un infiltrato «sotto copertura». Agiva, cioè, per conto dello Stato. Il colonnello aveva subito riferito l'informazione a Mori il quale - è questa una delle più gravi accuse specifiche contro l'ex capo del Ros - «non mi permise di usare un segnalatore da mettere addosso a Ilardo in modo tale da scoprire dove si teneva il summit e arrestare Provenzano».

Questi i fatti di cui si discute nel «processo nascosto». Fatti gravissimi che costituiscono un capitolo della storia mai chiarita del cosiddetto «papello», la trattativa tra Stato e Cosa Nostra. È infatti a quella trattativa che Riccio allude quando parla del «compito ben preciso» di Provenzano. Ma i temi più scabrosi sono altri ancora. Ed è là che probabilmente va cercata la causa dell’occultamento mediatico di questo processo: i rapporti tra Cosa Nostra e Marcello Dell’Utri, senatore di Forza Italia, uno dei più stretti collaboratori del presidente del Consiglio.
Ilardo ne parlò poco dopo l'avvio della sua collaborazione - cominciata nel gennaio del 1994 sotto il nome di copertura “Oriente” - ma, sostiene Riccio, questa categoria di confidenze fu subito messa da parte. Accantonata. E fu Mario Mori, all’epoca colonnello, a chiederlo. Di certo, il 10 maggio del 1996, alla vigilia del suo ingresso nel programma di protezione, Luigi Ilardo fu assassinato. Un colpo micidiale per la lotta contro Cosa Nostra. L’infiltrato aveva già dato ampia prova di essere affidabile. I suoi racconti avevano tra l'altro permesso la decapitazione dei vertici mafiosi delle province di Catania, Caltanissetta e Agrigento. Inoltre aveva fotografato in diretta l'organigramma di Cosa nostra dopo l'arresto di Riina, permettendo l'individuazione dei favoreggiatori della latitanza di Provenzano. Aveva persino iniziato a scambiare con lui alcune lettere, i famosi pizzini. È stato infatti Ilardo il primo a parlare dell'efficiente mezzo di comunicazione del padrino.Per il colonnello Riccio la morte del "suo" infiltrato fu la conferma definitiva che Cosa Nostra aveva la possibilità di conoscere le mosse degli investigatori. Doveva esserci stata una fuga di notizie dall'interno. Solo una decina di persone sapevano di Ilardo. Queste considerazioni si sommarono al disappunto per il mancato arresto di Provenzano. Riccio decise di informare la magistratura.


10 gennaio 2009 " xxx

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Capaci, la fiera del tartufo


Gen. Mario Mori -->

Mer. 27.05.2009 - Dal Blog "VoglioScendere" (26.05.2009), di Marco Travaglio.

" Ora d'aria
l'Unità, 25 maggio 2009

Sabato 23 maggio, come ogni anno, è andata in scena a Palermo la consueta parata antimafia, una sorta di fiera del tartufo dove una carovana di politici (c’era persino Schifani) e autorità militari, civili e religiose fanno a gara nell’elogiare l’impegno dello Stato, nel promettere di non abbassare la guardia, nel ringraziare i magistrati (quelli morti). xxx

Poi, rientrati a Roma, ricominciano come sempre ad attaccare o insultare o trasferire o disarmare i magistrati (quelli vivi). Nessuno degli augusti oratori impegnati a commemorare l’”amico Giovanni” ha detto una parola sui mandanti occulti ed esterni a Cosa Nostra che commissionarono le stragi di Capaci e Via d’Amelio nel 1992 e quelle di Milano, Firenze e Roma nel 1993.

Eppure, proprio il giorno prima, Giovanni Brusca - il pentito ritenuto da tutti credibilissimo quando parla di se stesso e dei complici che fecero esplodere l’autostrada di Capaci - ha fatto rivelazioni esplosive nel processo in corso (dunque ignorato dalla grande stampa) per favoreggiamento mafioso a carico del generale Mori per la mancata cattura di Provenzano nel 1995. “Riina - ha detto Brusca - mi fece il nome dell’uomo delle istituzioni col quale venne avviata, attraverso uomini delle forze dell’ordine, la trattativa con Cosa nostra” dopo Capaci. Il nome? Brusca s’è avvalso della facoltà di non rispondere perché sul caso indaga la Procura di Caltanissetta.

Finora Brusca aveva detto di essere arrivato a quel politico, all’epoca ministro, in base a sue “deduzioni”. Ora invece afferma che glielo disse Riina, coinvolto direttamente nella trattativa con due ufficiali del Ros (lo stesso Mori e il capitano De Donno) tramite l’ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino. Anche a quel politico della Prima Repubblica, come pure a Mori, sarebbe stato consegnato il famoso “papello” con le richieste di Cosa Nostra per interrompere le stragi. Ma la rivelazione di Brusca, ripresa da Corriere e Stampa, è caduta nel più impenetrabile silenzio della classe politica.

Lo stesso silenzio che l’altra sera, a Matrix su Canale5, ha accolto l’intervento del pm Gaetano Paci su Vittorio Mangano, lo “stalliere” di casa Berlusconi, definito “eroe” dal premier e da Dell’Utri: “Mangano era un mafioso sanguinario condannato per mafia, narcotraffico e omicidio, gli eroi sono Falcone e Borsellino”. In studio, mentre le telecamere indugiavano sui volti impietriti di Alessio Vinci, Piero Grasso e Giuseppe Ayala, non una parola su Mangano &C.. E via con l’antimafia dei film e delle fiction, quella che non fa nomi di politici. La commissione Antimafia, presieduta da Pisanu, è ormai un ente inutile e inerte.

Chissà se basterà a ridestarla dal letargo la denuncia del pm Roberto Scarpinato, che sabato, sul Sole-24ore, ha rivelato come il governo abbia tolto alle procure la password per accedere ai conti correnti. Impedendo così il sequestro di enormi capitali mafiosi. Una semplice coincidenza, si capisce: sono tutti troppo impegnati a celebrare l’”amico Giovanni”. " xxx

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giovedì 21 maggio 2009

"Sistema Berlusconi": impedire che l'avversario si esprima - Quando la realtà supera la fantasia

Gio. 21.05.2009 - Dal Blog "UGUALE PER TUTTI".

" di Achille

Ieri sera, nel Porta a Porta “cucito addosso” (come una volta ha dichiarato al telefono lo stesso Vespa, con riferimento a una puntata “in favore” di Fini) al Presidente Berlusconi per sostenere che il giudice Gandus è una “estremista di sinistra”, abbiamo assistito a una scena precisa identica a uno sketch di Neri Marcorè.

Vi ripropongo qui sotto il video della scena vera e quello dello sketch. "

Per vederli, bisogna cliccare sul titolo. xxx




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domenica 17 maggio 2009

Milano, Alabama



Dom. 17.05.2009 - Dal Blog "Voglioscendere", un pezzo di Pino Corrias (16.05.2009).

" da Vanity Fair, 13 maggio 2009

Probabile che Matteo Salvini, il leghista che chiede posti prioritari per i milanesi sul metrò, sappia nulla di Rosa Parks e della sua storia lucente. Rosa Parks era una donna nera di Montgomery, Alabama. Quando l’1 dicembre 1955 decise di sedersi in uno dei posti dell’autobus riservato ai bianchi, aveva 42 anni. Lavorava come sarta in un grande magazzino. Stava tornando a casa e aveva avuto una giornata dura. xxx

Rimase seduta per una manciata di fermate. Poi salirono dei bianchi. Il conducente le ordinò di alzarsi. E lei, che lo aveva fatto mille altre volte, rispettando la legge dell’Alabama che riservava ai negroes gli ultimi posti in fondo all’autobus, decise di disobbedire: “Non mi alzo”. Il conducente fermò l’autobus, chiamò due poliziotti che arrestarono Rosa Parks.

Per protesta la comunità afroamericana, guidata dal giovane reverendo Martin Luther King, decise che nessun nero sarebbe più salito sugli autobus di Montgomery, fino a quando non fosse stata cancellata la segregazione razziale. Il boicottaggio durò 381 giorni. Durante i quali tutti i neri andavano a piedi, oppure in automobili strapiene, oppure in bicicletta, e gli autobus vuoti rimanevano nelle rimesse.

Il 19 dicembre 1956 la Corte Suprema degli Usa - su richiesta dei difensori di Rosa Parks, condannata a 10 dollari di multa - dichiarò incostituzionali le leggi della segregazione. Il giorno dopo Martin Luther King e il reverendo bianco Glen Smith salirono sull’autobus e si sedettero uno di fianco all’altro. Oggi quell’autobus è in un museo, Rosa Parks sta nel cielo dei giusti, Obama abita alla Casa Bianca, e Matteo Salvini fa il capogruppo della Lega a Milano. " xxx

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sabato 16 maggio 2009

Antonio Di Pietro, Beppe Grillo sostengono Sonia Alfano al Parlamento europeo




Sab. 16.05.2009 - Palermo, 15.05.2009

Per vedere i singoli interventi fare clic qui, o sull'immagine in sovraimpressione che appare alla base del video. xxx

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Dal Nobel Josè Saramago: ?Fino a quando, Berlusconi, abuserai della nostra pazienza?



Sab. 16.05.2009 - Dal sito di MicroMega (15.05.2009).

" di José Saramago, da cuaderno.josesaramago.org, traduzione di Laura Franza

Duemila e cinquanta anni fa, giorno più giorno meno, in un’ora simile a questa, il buon Cicerone stava gridando la sua indignazione nel senato di Roma o nel Foro romano: “Fino a quando, Catilina, abuserai della nostra pazienza?”, e chiedeva una volta di più al vigliacco cospiratore che aveva voluto ucciderlo per impadronirsi di un potere al quale non aveva alcun diritto. La Storia è tanto prodiga, tanto generosa, che oltre a darci eccellenti lezioni sull’attualità di alcuni eventi d’altri tempi, ci lascia anche, per nostro uso, alcune parole, alcune frasi che, per una qualche ragione, hanno finito per gettare radici nella memoria dei popoli. xxx

La frase che ho citato prima, fresca, vibrante, come se fosse stata pronunciata un attimo fa, è senza dubbio tra quelle. Cicerone fu un grande oratore, un tribuno di enormi mezzi espressivi, però è interessante notare come in questo caso abbia preferito utilizzare termini tra i più comuni, che avrebbero potuto uscire dalla bocca di una madre che rimprovera il figlio irrequieto. Con l’enorme differenza che quel figlio di Roma, quel tale Catilina, era un mascalzone della peggior specie, sia come uomo che come politico.

La Storia d’Italia per qualcuno è sorprendente. E’ un lunghissimo rosario di geni, pittori, scultori o architetti, musicisti o filosofi, scrittori o poeti, miniatori o artisti, un numero senza fine di gente sublime che rappresenta quanto di meglio l’umanità ha pensato, immaginato, fatto. Non mancano certo le catiline di caratura più o meno forte, però nessun paese ne è esente, è una lebbra che tocca a tutti.

Il Catilina di oggi, in Italia, si chiama Berlusconi. Non ha bisogno di dare la scalata al potere, perché è già suo, ha abbastanza denaro per comprare tutti i complici di cui ha bisogno, compresi giudici, deputati e senatori. E’ riuscito nell’impresa di dividere il popolo italiano in due parti: quelli cui piacerebbe essere come lui e quelli che già lo sono. Adesso promuove l’approvazione di leggi discriminatorie in modo assoluto contro l’immigrazione illegale, si inventa pattuglie di cittadini per collaborare con la polizia nella repressione fisica dei migranti senza documenti e, colmo dei colmi, proibisce ai figli di padri immigrati di essere iscritti nei registri civili. Catilina, quello storico, non avrebbe fatto di meglio.

Dicevo prima che la Storia d’Italia per qualcuno è sorprendente. Per esempio, sorprende che nessuna voce italiana (almeno che io sappia) abbia ripreso, adattandole ma di poco, le parole di Cicerone: “Fino a quando, Berlusconi, abuserai della nostra pazienza?”.
Bisognerebbe provarci, magari si avrà qualche risultato e magari, per questo o per qualche altro motivo, l’Italia tornerà a sorprenderci.

(15 maggio 2009) " xxx

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Il Cavaliere Benzino Napoloni



Sab. 16.05.2009 - Dal sito "ITALIA DALL'ESTERO - ... come ci vede la stampa estera" (08.05.2009).

" Il Cavaliere Benzino Napoloni
Articolo di Personaggi d'Italia, pubblicato venerdì 8 maggio 2009 in Spagna.

[La Voz de Galicia]

Mai, come nell’attuale Repubblica Italiana, è stato tanto falso il detto secondo cui ogni paese ha i governanti che si merita. Bene, questo grande paese, che tanto amiamo ed ammiriamo e senza il cui nervo senza la cui forza industriale, commerciale, culturale e senza il cui spirito d”avventura sarebbe impossibile capire la storia del mondo almeno degli ultimi cinque secoli, non si merita certo un primo ministro come Silvio Berlusconi. xxx

Si, già so che “il Cavaliere” - che è come si sa in Italia, quello che è risultato essere un vero principe dei cafoni - è il presidente del Consiglio perché così ha deciso il corpo elettorale, però questa ovvietà non dovrebbe nemmeno trarci in inganno: Berlusconi vince le elezioni perchè non ha niente ad ostacolarlo, dopo il processo di cannibalismo e di continui tradimenti che si trova a soffrire la sinistra italiana da quando è entrato in crisi il sistema dei partiti del dopoguerra.

È stato così che un soggetto corrotto, autoritario e maleducato fino all’estremo imbarazzo ha potuto trasformarsi in un personaggio della politica europea e, grazie all’importanza dell’Italia nel Mondo, della politica mondiale. Grazie alla sua immensa fortuna personale, accumulata con mezzi che danno adito a sospetti di ogni genere, e al dominio di un immenso gruppo mediatico, Berlusconi ha ottenuto con il voto il posto che il suo vero predecessore ha conquistato con la forza.

Perché il vero predecessore culturale di Berlusconi non è né il corrotto democristiano Andreotti, né il Craxi socialista che sfuggí alla giustizia, né i tanti e tanti dirigenti emersi da quella democrazia consociativa italiana degradata per la mancanza di alternanza.

No. Il suo vero predecessore - quello che ricorda Berlusconi per i gesti, per la sua concezione della politica e per il suo disprezzo per le regole di una vera democrazia -, è un misto del vero Benito Mussolini e delle due sue più celebri parodie: quella che nel Grande Dittatore sarà impersonata da Charles Chaplin (l’ineffabile Benzino Napoloni, alleato del non meno delirante Astolfo Hinkel) e quella comica del Duce realizzata da Fellini in Amarcord.

È questa combinazione patetica, anche se odiosa, che permette di capire il Silvio Berlusconi che accusa alcuni deputati dell’opposizione di essere maleodoranti, quello che pretende di riempire di signorine le sue liste europee, quello rappresentato nudo e alato accanto al ministro Mara Carfagna in un quadro degno del più scadente “tutto a un euro”, quello che dopo il terremoto consiglia agli sfollati dell’Aquila di vivere la loro sistemazione come se stessero in un campeggio! E infine quello a cui piace toccare le donne anche senza il loro permesso. Un Berlusconi irresponsabile, frivolo, maschilista, omofobo e libertino che costa fatica accettare nell’Europa moderna di inizio XXI secolo.

[Articolo originale "Il Cavaliere Benzino Napoloni" di Roberto Blanco Valdésé] " xxx

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lunedì 4 maggio 2009

Mike Bongiorno cacciato da Mediaset



Lun. 04.05.2009 - Un uomo (Berlusconi), uno stile (il suo). Trasmissione "Che tempo che fa", RAI 3, del 03.05.2009. -fine post- xxx

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I DUBBI sull' 11 settembre



Lun. 04.05.2009 - Dal sito "Pandora" (29.04.2009), una intervista a David Ray Griffin, autore di numerose pubblicazioni sul tema. xxx

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domenica 3 maggio 2009

Mignottocrazia - Paolo Guzzanti



Dom. 03.05.2009 - Dal Programma "Tetris", su LA7, del 01.05.2009, intervento di Paolo Guzzanti (...e se lo dice lui !!): in atto operazione di Berlusconi per togliere le teste con pensiero politico dal Parlamento e sostituirle con automi, preferibilmente dotati di "tette e culi"; insomma, no gaffe ed eccessi, intemperanza sessuale del premier, ma strategia. xxx

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venerdì 1 maggio 2009

Information Day - Marsala, 26.04.2009 - Gioacchino Genchi - parte 5/5


Ven. 01.05.2009 - xxx

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Information Day - Marsala, 26.04.2009 - Gioacchino Genchi - parte 4/5



Ven. 01.05.2009 - xxx

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Information Day - Marsala, 26.04.2009 - Gioacchino Genchi - parte 3/5



Ven. 01.05.2009 - xxx

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Information Day - Marsala, 26.04.2009 - Gioacchino Genchi - parte 2/5



Ven. 01.05.2009 - xxx

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Information Day - Marsala, 26.04.2009 - Gioacchino Genchi - parte 1/5



Ven. 01.05.2009 - xxx

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W il 1° maggio, festa dei Lavoratori


Renato Guttuso, Portella della Ginestra, 1953, olio su carta intelata

Ven. 01.05.2009 - Non dimentichiamo la strage di Portella Della Ginestra, 01.05.1947 - Link di rinvio: 1 - 2 xxx

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