la libertà non ha appartenenza, è conoscenza, è rispetto per gli altri e per sé

"Chi riceve di più, riceve per conto di altri; non è né più grande, né migliore di un altro: ha solo maggiori responsabilità. Deve servire di più. Vivere per servire"
(Hélder Câmara - Arcivescovo della Chiesa cattolica)

sabato 30 ottobre 2010

Il "papello", celato da 5 anni - ?Da mafiosi? No da CC


Salvo D'Acquisto, onore ai veri Carabinieri-->

Sab. 30.10.2010 - Dal sito de "Il Fatto Quotidiano" (30.10.2010), di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza.

" Il documento che prova la trattativa Stato-mafia "fu ritrovato cinque anni fa dai carabinieri e rimesso a posto"

Il papello? Trovato cinque anni fa e rimesso a posto in cassaforte. Tutto “per ordini superiori”. Ma l’ufficiale dei carabinieri che se lo ritrovò tra le mani, nella peggiore tradizione dell’Arma, lo fotocopiò trattenendone la copia. Sono le clamorose rivelazioni di due militari, uno dei quali partecipò alla perquisizione a casa Ciancimino, acquisite agli atti del processo Mori e da ieri depositate e a disposizione delle parti. Protagonista è il capitano dei carabinieri Antonello Angeli che il 17 febbraio del 2005 diresse la perquisizione nella villa di Massimo Ciancimino, sul lungomare dell’Addaura, lasciandosi sfuggire il “papello” di Totò Riina.

L’ufficiale si sarebbe reso perfettamente conto che stava trascurando carte scottanti sulla trattativa tra Stato e mafia, ma avrebbe agito per “ordini superiori”. xxx

xxx A rivelarlo ai pm di Palermo è un maresciallo, Saverio Masi, che dice di aver raccolto le confidenze dello stesso capitano poco dopo l’“anomala” perquisizione. Presentatosi spontaneamente ai pm di Palermo Nino Di Matteo e Paolo Guido, che indagano sulla “trattativa” tra Stato e mafia, il sottufficiale ha raccontato che fu lo stesso Angeli a rivelargli come avesse rinvenuto in un soppalco di quella villa dell’Addaura, “la documentazione relativa ai rapporti tra le istituzioni e Cosa Nostra” e in particolare il “papello redatto da Totò Riina”.

Secondo il maresciallo, il papello non fu toccato perché “dai superiori arrivò l’ordine di non procedere al sequestro”, in quanto si sarebbe trattato di “documentazione già acquisita”. Ma al maresciallo, Angeli avrebbe riferito infatti di aver fotocopiato di nascosto la documentazione ufficialmente sfuggita al suo controllo grazie all’aiuto di un collaboratore. Qualche tempo dopo, allo stesso maresciallo, Angeli avrebbe chiesto di contattare un giornalista per denunciare pubblicamente la storia del mancato sequestro. Obbedendo al suo capitano, il sottufficiale, in compagnia di un collega, incontrò l’inviato di un quotidiano nazionale che però rifiutò di pubblicare la notizia. Il giornalista, chiamato dai pm, ha confermato tutto, consegnando persino un biglietto su cui i carabinieri avevano scritto i propri nomi e recapiti. Di quella “strana” perquisizione nella villa all’Addaura da parte di carabinieri incredibilmente “distratti” che avevano messo la casa sottosopra, ma si erano lasciati sfuggire il documento di Totò Riina, aveva già parlato Massimo Ciancimino, sostenendo però che la cassaforte non era stata neppure aperta.

Oggi scopriamo che quel pezzo di carta che prova la trattativa tra la mafia e lo Stato (consegnato da Massimo Ciancimino ai pm di Palermo solo l’anno scorso) in realtà è nelle mani dei carabinieri e in particolare di Angeli, da cinque anni. Un’ulteriore conferma alle parole del maresciallo è arrivata, più recentemente, dal collaboratore di Angeli, Samuele Lecca, che materialmente fotocopiò il ‘’ papello’’, consegnandone la copia al capitano, direttamente in ufficio. Si tratta di un carabiniere semplice che faceva parte della squadra incaricata di perquisire la villa di Ciancimino jr in quel febbraio del 2005. Il militare, convocato nei giorni scorsi dai pm, ha raccontato che durante quel controllo in casa del figlio di don Vito il capitano Angeli gli chiese se conoscesse una copisteria dove potesse ‘’velocemente’’ fotocopiare alcuni documenti per poi riportarglieli in ufficio. Si trattava di numerosi fogli, alcuni a quadretti, molti dei quali scritti a penna e costellati di post it.

Il carabiniere rimase sospreso perché, per correre a fotocopiare quelle carte, dovette utilizzare la macchina di servizio, sottraendola ai colleghi che rischiavano di non poter tornare in caserma. Il militare, comunque, raggiunse in fretta una copisteria, fotocopiò le carte e riportò originali e fotocopie al suo capitano. Poi partecipò alla catalogazione dei documenti sequestrati in casa Ciancimino e notò che i documenti da lui fotocopiati non facevano parte dei materiali finiti sotto sequestro. Angeli, oggi colonnello dei carabinieri, per anni in servizio presso il Quirinale, è indagato a Palermo per favoreggiamento. È stato interrogato una prima volta nell’estate 2009 e si è avvalso della facoltà di non rispondere. Nuovamente convocato dai pm il 22 ottobre scorso, ha fatto sapere qualche giorno prima dell’interrogatorio, tramite il suo legale, l’avvocato Salvatore Orefice, di non voler rispondere. I magistrati hanno rinunciato a sentirlo. I due testimoni saranno interrogati in aula nel processo Mori. " xxx

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Un tempo si diceva



Sab. 30.10.2010 - Dal Blog (30.10.2010) di Paolo Farinella, sacerdote. [fine post]

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domenica 24 ottobre 2010

Berlusconi, il buio sulle origini



Dom. 24.10.2010 - Dal sito de "Il Fatto Quotidiano" (23.10.2010), Parla il banchiere Scilabra: "L'ex sindaco di Palermo Ciancimino venne da me insieme a Dell'Utri a chiedere 20 miliardi per Berlusconi".

" “Vito Ciancimino e Marcello Dell’Utri nel 1986 chiesero insieme 20 miliardi di vecchie lire in prestito per le aziende di Silvio Berlusconi alla Banca Popolare di Palermo”. A raccontare l’incontro che proverebbe i rapporti tra il gruppo Berlusconi e don Vito, sempre negati dal Cavaliere, non è Massimo Ciancimino o un pentito qualsiasi ma un manager di banca in pensione, che ha passato metà della sua vita nel cuore del potere siciliano e che ora ha deciso di aprire l’album dei ricordi. Si chiama Giovanni Scilabra, oggi ha 72 anni e allora era direttore generale della Banca Popolare di Palermo del conte Arturo Cassina, il re degli appalti stradali, amico e sodale di Ciancimino. L’ex manager è abbastanza deciso nel collocare l’incontro nel 1986. Don Vito era stato arrestato da Giovanni Falcone per mafia nel 1985 e aveva l’obbligo di risiedere a Roma. Ma il figlio Massimo ha raccontato che, grazie alle sue coperture, circolava indisturbato a Palermo. “Nel 1985 era stata inaugurata la nuova sede della Banca Popolare di Palermo di fianco al Teatro Massimo”, cerca di riannodare i ricordi l’ex manager, “ricordo che l’incontro avvenne in quella sede”. In pensione dal 1999, Scilabra ha più tempo da dedicare alla lettura. L’ex manager ha seguito con attenzione le rivelazioni del Fatto sugli affari e gli incontri milanesi tra il Cavaliere e Ciancimino. E, quando l’avvocato-onorevole Niccolò Ghedini ha dichiarato: “Nessun rapporto né diretto né indiretto né tantomeno economico vi è mai stato fra Berlusconi e Vito Ciancimino. All’’epoca Berlusconi non sapeva chi fosse il sindaco di Palermo”, Scilabra ci ha aperto la sua bella casa palermitana per dire quello che ha visto con i suoi occhi. xxx

xxx Dottor Scilabra quando ha conosciuto Marcello Dell’Utri?
Nei primi mesi del 1986, il Cavaliere Arturo Cassina, mi disse: ‘Dottore Scilabra, vengo sollecitato da Vito Ciancimino per un finanziamento a un grande gruppo del Nord. Io vorrei che lei lo riceva e ascolti le sue richieste’. Dopo alcuni giorni Vito Ciancimino è venuto insieme al signor Marcello Dell’Utri. Mentre Ciancimino lo conoscevo bene, era stato già assessore e sindaco, Dell’Utri per me era uno sconosciuto. Per accreditarsi mi disse che era palermitano, aggiunse che aveva un fratello gemello. Poi entrò nel vivo. Veniva a chiedere un finanziamento per il Cavaliere Berlusconi.

Perché la Fininvest di Milano chiedeva prestiti a Palermo?
Dell’Utri mi disse: ‘Abbiamo problemi al Nord con il sistema bancario e allora abbiamo tentato con l’amico Ciancimino di sentire cosa si può ottenere dalle piccole banche siciliane’.

La richiesta di finanziamento a quanto ammontava?
Circa 20 miliardi di vecchie lire. Il rischio però sarebbe stato suddiviso tra tutte le banche popolari della Sicilia. Feci presente a Dell’Utri che per noi, piccole banche siciliane, quelle richieste erano troppo onerose.

Cosa le disse per convincerla?
Marcello Dell’Utri disse che il gruppo Fininvest avrebbe ripagato con congrui interessi l’operazione. Voleva restituire tutto dopo 3 anni, in un’unica soluzione. Solo gli interessi sarebbero stati pagati durante i 36 mesi.

Lei cosa rispose?
Io dissi: ‘Visto che lei è venuto accompagnato da Vito Ciancimino ne parlerò con le altre banche’. Però aggiunsi che una restituzione a 36 mesi mi sembrava poco fattibile anche perché la Banca d’Italia e gli organi di vigilanza ci stavano con il fiato sul collo e avrebbero sicuramente avuto qualcosa da ridire. Proposi allora di adottare il metodo revolving, cioè con dei rientri ogni 4 mesi del capitale. In modo da permetterci anche di vedere come andavano queste aziende nel frattempo.

E in questa conversazione tra lei e Dell’Utri, che atteggiamento adottò Vito Ciancimino?
La mia impressione è che il ruolo di Ciancimino fosse un po’ quello del sensale dell’operazione.

In che rapporti erano Dell’Utri e Vito Ciancimino?
Cordiali. Si vedeva che si conoscevano bene. Comunque io mi riservai di decidere e passammo ai saluti. Da allora non ho più visto di persona Dell’Utri.

E il finanziamento?
Dall’indomani io mi misi all’opera. Contattai i presidenti e i direttori generali delle banche popolari più rappresentative per sentire il parere di colleghi più anziani di me. Tutti dissero che l’operazione non era fattibile. Era troppo rischiosa per le nostre piccole banche.

Perché il gruppo Berlusconi aveva bisogno di capitali?
Non capii esattamente se dovevano servire per la Edilnord, per la Fininvest o per la Standa (in realtà la Standa sarà comprata da Berlusconi solo anni dopo, ndr). Comunque il gruppo Fininvest allora era indebitato per migliaia di miliardi.

Chi erano questi colleghi delle altre banche con i quali ha parlato del finanziamento a Berlusconi?
Contattai Francesco Garsia, direttore della Banca Popolare di Augusta; il barone Carlo La Lumia e il direttore Giuseppe Di Fede della Banca di Canicattì; l’avvocato Gaetano Trigilia della Banca di Siracusa; il barone Gangitano della Banca dell’Agricoltura, sempre di Canicattì; Francesco Romano della Popolare di Carini. Allora erano le banche più rappresentative della Sicilia, con tanti sportelli e attivi congrui. Feci’ da regista all’operazione perché ero nel capoluogo, Palermo, ed ero il più giovane, tanto che gli altri sono quasi tutti morti.

E come è finita la storia?
Ciancimino tornò da me, da solo. E gli dissi che l’operazione non poteva andare avanti per i motivi che ho detto.

Come la prese Ciancimino?
Molto male. Nell’operazione secondo me lui si sarebbe certamente ritagliato una mediazione perché secondo me per lui questo oramai era un mestiere. Fu sgradevole come suo solito. Mi disse che eravamo una bancarella, che eravamo tirchi, che avevamo fatto male e che dovevamo dare questi soldi a Berlusconi, un grosso imprenditore che avrebbe pagato interessi congrui.

E Cassina come la prese?
Ovviamente io avevo riferito tutto al commendatore che mi disse di fare tutto il possibile ma – comunque – sempre tutelando l’interesse della banca.

Ci può raccontare chi era secondo lei il Conte Cassina, come lo chiamavano allora?
Era in realtà un signore venuto da Como che usurpò il titolo nobiliare al fratello e che iniziò a lavorare nelle manutenzioni stradali nel dopoguerra. Così entrò in rapporti con Ciancimino, assessore ai lavori pubblici e poi sindaco di Palermo.

E chi erano gli altri soci della banca?
La banca era una piccola popolare con dei soci di riferimento. Oltre a Cassina c’era il cavaliere Alfredo Spatafora, ricchissimo titolare di una catena di negozi di scarpe in tutta Italia e il commendatore D’Agostino che operava nel campo delle opere marittime.

Sta parlando di quel Benni D’Agostino, arrestato nel 1997 e poi condannato per mafia, già socio nel periodo 1979-80 del presidente del Senato Renato Schifani?
Sì, lui era il figlio del commendatore ma si occupava anche lui dell’azienda e lo conoscevo, come il padre.

Perché Cassina era così potente?
Cassina a Palermo era come Costanzo, Rendo e Graci messi insieme a Catania. A Palermo era come Agnelli a Torino. Nella sua villa aveva impiantato uno zoo con centinaia di animali: leoni, leopardi, coccodrilli, giraffe e zebre. Gestiva l’Ordine del Grande Sepolcro di Palermo dove faceva entrare chi diceva lui. Funzionari di polizia, prefetti, politici e mafiosi e colletti bianchi facevano la fila mentre io, ovviamente, me ne fottevo. Cassina era molto amico anche di Gheddafi, che gli affidava gli appalti in Libia. Uno dei primi libretti verdi della rivoluzione del Colonnello finì nelle mie mani perché Gheddafi lo aveva donato personalmente a Cassina che aveva fatto impiantare le tende nei suoi saloni in suo onore.

Ma perché Cassina aveva il monopolio degli appalti?
Nella sua ditta c’era addirittura un distributore delle tangenti. Si chiamava ragioniere D’Agostina, detto manuzza. Il commendatore mi chiamava la sera e mi chiedeva di far preparare al cassiere decine di milioni di vecchie lire in contanti. Al mattino si presentava il ragioniere e mi lasciava un assegno che veniva addebitato sui conti di Cassina. Quei soldi servivano per politici e funzionari. Il ragioniere mi diceva: ‘Assai ci costano i politici al conte Cassina’”.

Chi erano i correntisti della banca?
Prima che io diventassi direttore c’era il papa della mafia, Michele Greco. Era amico del vicepresidente Giuseppe Guttadauro, ex deputato monarchico legato alla mafia di Ciaculli, che fu cacciato dalla banca.

Cosa pensa dei racconti di Massimo Ciancimino sui rapporti economici tra il padre e Silvio Berlusconi?
Per me, al 99 per cento, Massimo Ciancimino dice la verità. Comunque da quello che ho visto io, Ciancimino era un uomo venale. A lui interessava l’argent , cioè i soldi della mediazione. Non era una persona raffinata. Il raffinatissimo, secondo me, era Marcello Dell’Utri.

Quali erano i rapporti tra Ciancimino e Cassina?
Erano culo e camicia. Quando Ciancimino era assessore, tutte le strade, gli acquedotti e le fognature erano appaltate alle ditte di Cassina. Al punto che tutte le mappe delle reti non erano in comune ma in mano a Cassina, anzi nella casa di un capomastro. Se il comune voleva riparare una strada doveva chiedere le mappe a lui. Fu proprio il capomastro a spiegarmi il meccanismo. Un giorno si presentò nel mio ufficio e mi chiese un prestito di 500 milioni di lire dell’epoca, che ovviamente gli rifiutai. Lui allora si inalberò e mi spiegò che non era un capomastro qualsiasi ma quello che aveva le mappe. Alla fine ottenne il prestito, anche se molto inferiore.

A proposito di prestiti rischiosi, lei si è pentito di non avere dato quei 20 miliardi all’uomo più potente d’Italia?
No. Ma che scherziamo? La centrale rischi bancari indicava per il gruppo Berlusconi un’esposizione per migliaia di miliardi. Era troppo rischioso e avremmo rischiato seriamente di perdere tutti i soldi.

Perché oggi racconta questa storia?
Perché sono stufo delle bugie. Per capire l’Italia di oggi bisogna partire dalle storie come quella di Cassina, che io ho vissuto. E per costruire un paese migliore bisogna cominciare a raccontare tutta la verità. " xxx

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martedì 19 ottobre 2010

Tradizioni familiari



Mar. 19.10.201 - Le Vignette di Marco Vuchich, dal sito di "Arcoiris TV" (18.10.2010).

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sabato 16 ottobre 2010

Una politica di sacrificio, e non di privilegi




Sab. 16.10.2010 - Dal Blog di Beppe Grillo, il suo "Comunicato politico n.37" (15.10.2010).

" Per prendere i barracuda bisogna togliere l'acqua dove nuotano. Nello stagno italiano ci sono due grossi barracuda: i partiti e i giornali. L'acqua in cui sguazzano sono i finanziamenti pubblici. Tra partiti e giornali la differenza è nulla. Sono la stessa cosa. Entrambi pagati con le nostre tasse. I giornalisti sono le mosche cocchiere dei partiti che li sostengono con contributi diretti e indiretti fino a un miliardo di euro all'anno. L'identità di ruolo e di scopo è perfetta. xxx

xxx Nei giornali, e ora persino nei blog dei giornali, scrivono anche i politici insieme ai giornalisti. L'informazione è politica elettorale allo stato puro costruita per orientare l'opinione del lettore. Se i giornali vivono di soldi pubblici, dal Gruppo l'Espresso, all'Unità a Libero, i partiti non sono da meno. Nessun partito sopravviverebbe una settimana senza il trucco dei contributi elettorali trasformati a suo tempo in finanziamenti elettorali. I partiti sono grandi datori di lavoro, dispongono di un miliardo di euro che spendono per sedi, impiegati, burocrazia, feste, congressi, viaggi all'estero. Al miliardo vanno aggiunti gli stipendi da nababbi da consiglieri regionali, deputati e senatori. I partiti non soffrono la crisi. In caso di difficoltà si aumentano gli stipendi e le entrate elettorali con leggi ad hoc, come è avvenuto più volte negli ultimi anni, nonostante il voto contrario di un referendum. I partiti non sono la democrazia, sono i beneficiari della democrazia che, per sicurezza, hanno trasformato in partitocrazia per averne il controllo diretto... a partire dall'elezione dei parlamentari fatta dalle segreterie. I partiti non sono necessari, è quello che vogliono farci credere per rimanere in vita. I partiti sono intermediari senza valore aggiunto per i cittadini, ma con un plus valore immenso per sé stessi. Senza l'acqua, senza i nostri soldi, fallirebbero sia i partiti che i giornali. Giornalisti e politici scapperebbero come pulci dalla carcassa di un cane morto. Questa politica è business. Senza soldi chiude. Il MoVimento 5 Stelle ha rifiutato un milione e settecentomila euro di "contributi elettorali" per le scorse elezioni regionali, i suoi consiglieri regionali si sono autoridotti lo stipendio. Eppure esistiamo, facciamo politica. Non è un miracolo. Succede perché alcuni cittadini hanno deciso di partecipare in prima persona alla vita pubblica per dovere civile. Succede perché la Rete se ne frega dei giornali e della televisione e in Rete non si può mentire. In Rete si può fare informazione senza i giornalisti (a proposito, a quando l'abolizione dell'Albo Mussoliniano dei giornalisti?) con filmati e interviste a persone competenti, informate sui fatti. Fare politica senza finanziamenti pubblici si può, fare informazione senza finanziamenti pubblici si può (questo blog e molti altri ne sono una prova). Nessun partito rinuncerà ai finanziamenti pubblici, ai super stipendi per i parlamentari, alle pensioni dopo una sola legislatura. Il MoVimento 5 Stelle lo ha fatto per le Regionali e lo farà per le elezioni politiche. Non si chiede al cittadino di finanziare la politica, ma di fare lui stesso politica.
Da un commento di Gian Franco Dominijanni del 14.10.10 ore 22:01:
"E' surreale vedere lavoratori che guadagnano 400 e forse rotti € al mese che parlano dei loro problemi (in televisione, ndr) con persone che loro stessi stipendiano con ben 20 mila e rotti € al mese." " xxx

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Massimo Ciancimino, autentiche le carte



Sab. 16.10.2010 - Da "Il Fatto Quotidiano on line", di Marco Travaglio (16.10.2010).

" A proposito di balle spaziali. Qualche giorno fa due funzionari della Polizia scientifica vengono sentiti nel processo di Palermo al generale Mori, imputato per favoreggiamento a Provenzano. E riferiscono le conclusioni della loro perizia sui 55 documenti consegnati da Massimo Ciancimino sui rapporti fra il padre Vito ed esponenti di Cosa Nostra, della politica e degli affari. Queste: 54 documenti, alcuni in originale altri in fotocopia, sono autentici, cioè compatibili in tutto e per tutto (grafia, epoca, contenuti) con quanto racconta il testimone; uno solo presenta anomalie, cioè contiene nello stesso foglio fotocopiato alcuni scritti di Massimo e altri di don Vito. xxx

xxx In quegli appunti si leggono parole come “Berlusconi-Ciancimino”, “Milano truffa assicurazioni”, “Milano-Gelli-Bono-Calvi”. La Stampa titola a tutta pagina: “Berlusconi e la mafia, il falso di Ciancimino”. E ricorda che il 28 settembre il generale Mori aveva accusato Ciancimino jr di aver fabbricato “documenti contraffatti in maniera rozza” con successive fotocopiature e l’ausilio del Photoshop: in particolare uno, quello con la famosa minaccia di “uscire dal mio riserbo” (cioè di parlare) se Berlusconi non avesse “messo a disposizione le sue reti tv” (diverso da quello messo in dubbio dai poliziotti). Ora la perizia della Scientifica, secondo La Stampa, confermerebbe quella gravissima accusa, in grado di mettere in dubbio l’attendibilità del figlio di don Vito. Anche Il Giornale gongola. Titolo: “Il falso di Ciancimino, l’oracolo di Annozero”. Svolgimento: “Un falso grossolano. Due fogli messi insieme, due scritture, quella di don Vito Ciancimino e del figlio Vito (sic, ndr), fuse in un’unica fotocopia. È un colpo alla credibilità del figlio del defunto sindaco… Da tempo i tecnici della difesa Mori parlavano di contraffazioni, ma ora un’inaspettata conferma arriva, nientemeno, dai consulenti della Polizia scientifica. Almeno uno dei 55 documenti è un falso. E, guarda la combinazione, parla di Berlusconi”. Evviva, Ciancimino fabbrica carte false per provare accuse false, dunque B. con la mafia non c’entra. La posta in gioco è altissima: se fosse vero quel che dicono Massimo Ciancimino e ultimamente anche la madre, vedova di don Vito, sugli investimenti del padre e di altri mafiosi nel gruppo B., dovrebbe riaprirsi l’indagine per mafia e riciclaggio sei volte archiviata a Palermo a carico del Cavaliere per insufficienza di elementi per sopportare un giudizio. Dunque è fondamentale sapere se Ciancimino porta merce avariata o genuina. La risposta è in un verbale del 1° dicembre 2009 reso da Massimo ai pm Sergio Lari e Nino Di Matteo. Quel giorno consegna un foglio fotocopiato e avverte: “Guardando il foglio alla mia sinistra è la mia grafia, alla mia destra è la grafia di mio padre. Gli appunti più chiari sono scritti a matita da mio padre, infatti li ho fotocopiati per evidenziarli meglio. Quelli più scuri… è la mia grafia. Erano argomenti che mi ripromettevo di approfondire con mio padre (in vista del libro di memorie che avrebbero dovuto scrivere insieme nel 2001-2002 e che poi non si fece perché don Vito morì nel novembre 2002, ndr)”. Domanda dei pm: “Quindi è un foglio misto?”. Risposta: ”Sì, è un figlio misto”. Pm: “Quindi è un collage?”. MC: “Esatto”. Pm: “Ridotto in fotocopia?”. MC: “Sì”. Quindi fu lo stesso Ciancimino a informare immediatamente i pm che dieci anni fa, quando mai avrebbe immaginato che sarebbe stato chiamato a risponderne, fotocopiò su un foglio A4 due appunti, uno suo l’altro del padre. Appunti assolutamente autentici. Possibile che diventino “un falso” solo perché sono riprodotti nella stessa fotocopia? Sì, se lui avesse detto che erano entrambi del padre. No, visto che ha detto subito chi aveva scritto cosa, ben prima che lo scoprisse la Scientifica. Dunque anche il 55° documento è autentico. Dunque Ciancimino esce confermato su tutta la linea. Dunque gli unici falsi, in questa storia, sono i titoli della Stampa e del Giornale. " xxx

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sabato 9 ottobre 2010

domenica 3 ottobre 2010

Di Pietro: Berlusconi stupratore della democrazia



Dom. 03.10.2010 - Dal Blog di Antonio Di Pietro, il suo interventoalla Camera dei deputati, del 29.09.2010, dichiarazione di voto sulla fiducia al governo Berlusconi.

" Sig. presidente del Consiglio,
Lei è uno spregiudicato illusionista, anzi un pregiudicato illusionista che, anche oggi, ha raccontato un sacco di frottole agli italiani, descrivendo un’Italia che non c’è e proponendo azioni del Governo del tutto inesistenti e lontane dalla realtà. xxx

xxx Fuori da qui c’è un Paese reale che sta morendo di fame, di legalità e di democrazia e Lei è venuto qui in Parlamento a suonarci l’arpa della felicità come fece il suo predecessore Nerone mentre Roma bruciava.
Quella stessa Roma che anche oggi i barbari padani vogliono mandare al rogo, insieme alla bandiera e all’Unità d’Italia.
Sono sedici anni che racconta le stesse frottole, ma le uniche cose che ha saputo fare finora sono una miriade di leggi e provvedimenti per risolvere i suoi guai giudiziari o per sistemare i suoi affari personali.
Al massimo, ha pensato a qualche altro suo amico della cricca, assicurando a lui prebende illecite e impunità parlamentari, proprio come prevede il vangelo della P2, Cosentino, Dell’Utri e compagnia bella docet!
Anzi, no! Un’altra cosa lei è stato ed è bravissimo a fare, e lo ha dimostrato ancora una volta in questi giorni: comprare il consenso dei suoi alleati ed anche dei suoi avversari. I primi pagandoli letteralmente con moneta sonante, con incarichi istituzionali, con candidature e ricandidature di favore; i secondi ricattandoli con sistematiche azioni di dossieraggio e di killeraggio politico di cui lei è maestro.
Sì, perché Lei, sig. Berlusconi è un vero “maestro”: intendo dire un maestro della massoneria deviata, un piduista di primo e lungo corso, un precursore della collusione e della corruzione di Stato.
Anzi di più. Lei è l’inventore di una forma di corruzione di nuovo conio, più moderna e progredita: cambiare le leggi in modo da non far risultare più reato quel che prima lo era e in modo da non rendere più punibili coloro che prima potevano essere condannati.
Questa mattina, Lei si è gonfiato il petto ricordando un nobile principio liberale: “Ad ognuno deve essere consentito fare tutto tranne ciò che è vietato”.
Certo, ma chi, in Europa, ha scritto con il proprio sangue questo tassello di democrazia liberale non pensava affatto che un giorno si sarebbe trovato davanti ad un signorotto locale che avrebbe dichiarato “non vietato” tutto ciò che gli pareva e piaceva a lui e che non era la legge a governare il sistema ma doveva essere Lui a governare la legge.


Lei, sig. Berlusconi, non è un presidente del Consiglio ma è uno “stupratore della democrazia” che, dopo lo stupro, si è fatto una legge, anzi una ventina di leggi ad personam per non rispondere di stupro!
Lei non è, come alcuni l’hanno definito, uno dei tanti tentacoli della piovra.
Lei è la testa della piovra politica che in questi ultimi vent’anni si è appropriata delle istituzioni in modo antidemocratico e criminale per piegarle agli interessi personali suoi e dei suoi complici della setta massonica deviata di cui fa parte.
Lei, oggi, ci ha parlato della volontà del Governo di implementare la lotta alla corruzione, all’evasione fiscale, alla criminalità economica delle cricche.
E che fa si arresta da solo? O ha deciso di prendersi a schiaffi tutte le mattine appena si alza e si guarda allo specchio?

Lei si è impossessato e controlla il sistema bancario e finanziario del Paese.
Lei controlla le nomine degli organi di controllo che dovrebbero controllare il suo operato.
Lei fa il ministro dello Sviluppo Economico e, come tale, prende decisioni a favore del maggior imprenditore italiano, cioè Lei (e dico maggior imprenditore, non migliore come maggiore e non migliore è l’imprenditoria mafiosa).
A Lei non interessa nulla del bene comune perché si è messo a fare politica solo per sfuggire alla giustizia per i misfatti che ha commesso.
Non lo dico solo io. Lo ha detto pure il direttore generale delle sue aziende, Fedele Confalonieri, ammettendo pubblicamente che “se Berlusconi non fosse entrato in politica noi oggi saremmo sotto un ponte o in galera”.

Lei si è impossessato dell’informazione pubblica e privata e la manipola in modo scientifico e criminale.
Un esempio? La casa di Montecarlo venduta da Alleanza nazionale. Lei e i suoi amici dell’informazione avete fatto finta di scandalizzarvi nell’apprendere che, dietro quella compravendita, c’è una società off-shore situata in un paradiso fiscale.
Ma si guardi allo specchio, imputato Berlusconi: Lei di società off-shore ne ha fatte ben 64 proprio per nascondere i proventi dei suoi reati societari e fiscali e per pagare tangenti ai politici e ai magistrati e lo ha fatto ricorrendo a quell’avvocato inglese David Mills, condannato per essere stato, a sua volta, da lei corrotto per mentire ai giudici e così permetterle di ottenere un’assoluzione comprata a suon di bigliettoni.
Già! Perché la magistratura che Lei ha corrotto: quella a Lei piace.
Invece, non le piace quella che vuole giudicarla per i suoi misfatti, tanto è vero che ora, al primo punto del suo ”vero programma”, quello di cui oggi non ha parlato, c’è la reiterazione del Lodo Alfano, cioè proprio di quella legge che deve assicurarle l’impunità per un reato gravissimo che lei ha commesso: la corruzione di giudici e testimoni.

Solo per questo fatto, Lei non meriterebbe un minuto in più di rappresentare il Governo italiano e se ancora riesce a starci è solo perché compra i voti ricattando quei parlamentari che si rassegnano a vivere vigliaccamente senza onore o senza coraggio!
Questo è il ritratto che noi dell’Italia dei Valori abbiamo di Lei, sig. Berlusconi!
E Lei, oggi, viene a chiederci la fiducia?
Lo chieda, ma non a noi.
Lo chieda a quelli che ha comprato o ricattato.
Lo chieda ai parlamentari di Futuro e Libertà che finalmente si sono resi conto con chi avevano e hanno a che fare ma non trovano, o non hanno ancora trovato, il coraggio di dissociarsi dal macigno immorale che Lei rappresenta.
Lo chieda al presidente Fini che nel suo discorso estivo a Mirabello ha detto esattamente (ed anzi di più) delle cose che sto dicendo io e ancora indugia a staccare la spina, passando, suo malgrado, da vittima a complice delle sue malefatte!
Lo chieda a tutta quella pletora di disperati che in questi giorni ha convocato a casa sua per offrire loro prebende o per minacciare imbarazzanti rivelazioni e che ora , abbagliati da improvvisa ricchezza o intimoriti dai dossieraggi che Lei ha architettato e commissionato, hanno deciso di vendere la loro anima e il loro onore dandole una fiducia che non merita!
Non lo chieda a noi che siamo stati primi a smascherare le sue reali e criminali intenzioni. " xxx

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sabato 2 ottobre 2010

Non più lavoro, solo schiavismo



Sab. 02.10.2010 - Di Luigi De Magistris (11.09.2010).

" Il braccio di ferro che vede la Fiom contrapporsi alla Fiat, alla Federmeccanica e alla Confindustria non è questione che riguarda esclusivamente il mondo delle tute blu e non si consuma sul solo terreno del rinnovo del contratto, ma coinvolge l’intero universo del lavoro chiamando in causa la società e le future relazioni fra ‘classi’ che la caratterizzeranno in futuro. Questo spiega il clima da ‘resa dei conti’ finale, la virulenza dello scontro, la determinazione nel chiuderlo. E’ in atto un tentativo da parte della realtà confindustriale, benedetto anche dal Governo dei Sacconi e dei Tremonti, di estendere il modello Pomigliano d’Arco – meno diritti (mensa, malattia, manifestazione del pensiero, sciopero) a fronte di un’occupazione massimamente flessibile – a tutto il settore metalmeccanico, prima, e produttivo poi. xxx

xxx Un tentativo che ha trovato sponda nei sindacati ad eccezione – coraggiosa – della Fiom. Un tentativo che si condensa in un vero e proprio ricatto: disoccupazione oppure schiavitù. Emblematico il comportamento Fiat: investimento in Italia, alle condizioni imposte da Marchionne, oppure delocalizzazione della produzione all’estero (Est Europa), con conseguente ecatombe occupazionale nostrana (da Pomigliano a Mirafiori, tutti in mezzo ad una strada). Lo abbiamo visto in occasione della consultazione presso lo stabilimento campano. E’ il capitalismo bellezza, quello che dopo aver vissuto per decenni degli aiuti di Stato non si sente minimamente in debito verso i cittadini che lo hanno foraggiato. E’ colpa del dumping sociale, bellezza, che va combattuto importando il modello cinese: lavorare lavorare lavorare, privati dei diritti e del sindacato. Facciamoci cinesi, insomma, è la risposta che Marchionne&co. oppongono alla concorrenza che proviene dai paesi in via di sviluppo, dove non esiste rappresentanza del lavoro e il ritmo produttivo è quello delle “24h24”. E se a tutto questo si fa resistenza, ecco che la reazione è punitiva ed educativa al tempo stesso. Vedi il caso dei tre operai licenziati dalla Fiat per aver preso parte allo sciopero nei giorni caldi di Pomigliano e che, nonostante un giudice del lavoro ne abbia decretato il reinserimento condannando l’azienda per comportamento anti sindacale, vengono mortificati con l’esclusione dal lavoro (Fiat li paga ma non consente loro di riprendere l’occupazione, concedendogli di fare solo capolino in fabbrica e solo nei locali sindacali). L’ultimo atto di tale braccio di ferro si è consumato con la scelta della Federmeccanica di seppellire il contratto nazionale di lavoro delle tute blu del 2008 (che non prevedeva deroghe), sottoscritto da tutti i sindacati e approvato con referendum dai lavoratori. L’unico contratto valido per questi signori (padroni?) è quello del 2009, non firmato dalla Fiom e non votato dai diretti interessati, e che per altro è già al centro di una trattativa di deroga (che vede esclusa, ovviamente, sempre la Fiom, e che serve a favorire accordi territoriali).

In cosa si traduce tutto questo è evidente: la fine del contratto collettivo nazionale, a favore di quello aziendale, e la sterilizzazione del ruolo storico del sindacato. Il lavoratore sarà costretto a trattare salario e ritmi di lavoro in un corpo a corpo solitario con il datore di impiego. Si può capire cosa significherà, in termini di forza contrattuale, per il lavoratore: il solito ricatto. Cioè: o mangi questa minestra o salti dalla finestra, per usare un motto popolare. Una giungla contrattuale dove non troveranno spazio i diritti e che porterà al ricorso alla magistratura, come giustamente preannunciato dall’organizzazione delle tute blu della Cgil. Una giungla contrattuale che è stata voluta da tutti –da Confindustria a Federmeccanica- per accontentare Marchionne e la Fiat (che minacciavano di non investire in Italia, in particolare a Pomigliano), ma al contempo anche se stessi. Un coro unanime infatti celebra l’avvento di un mercato occupazionale senza regole, tranne quelle a garanzia del più forte giustificandolo con lo spauracchio della concorrenza dall’Est del mondo. In questo vociare sono esclusi temi importanti come quello della necessità di ridefinire le relazioni fra capitale e lavoro in senso democratico (pensando, per esempio, ad una legge sulla rappresentanza che consegni a chi lavora l’ultima parola in merito alla sua occupazione) oppure l’urgenza, nella crisi finanziaria globale, di una riflessione in merito al mito di un capitalismo senza freni che ha mostrato la sua fragilità. Si tratta semplicemente di un assalto firmato esecutivo Berlusconi e associazioni industriali, indirizzato anche alla Costituzione e alle sue tutele in difesa dei lavoratori. Assalto che va respinto ma soprattutto interpretato per ciò che è realmente: un tassello del nuovo autoritarismo ‘made in’ Governo e poteri forti, quello che spazia dalla politica al welfare (servizi pubblici) fino alle relazioni industriali, e quindi sociali. Un autoritarismo che propone/impone un sistema politico accentratore di potere, populista e plebiscitario, e un modello di società dove i più deboli sono cannibalizzati, privi del sostegno che anche lo Stato dovrebbe garantire per essere giusto. E i più deboli, attenzione, siamo e saremo tutti noi. Non solo gli operai di Melfi, Pomigliano o Mirafiori. " xxx

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Una via d'uscita per la Terra - Intervista a Jeremy Rifkin

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