la libertà non ha appartenenza, è conoscenza, è rispetto per gli altri e per sé

"Chi riceve di più, riceve per conto di altri; non è né più grande, né migliore di un altro: ha solo maggiori responsabilità. Deve servire di più. Vivere per servire"
(Hélder Câmara - Arcivescovo della Chiesa cattolica)

martedì 17 giugno 2008

Il vero volto di Berlusconi


Da "la Repubblica.it" del 17.06.2008

Il vero volto del Cavaliere
di EZIO MAURO

Nel mezzo della luna di miele che la maggioranza degli italiani credeva di vivere con il nuovo governo, la vera natura del berlusconismo emerge prepotente, uguale a se stessa, dominata da uno stato personale di necessità e da un'emergenza privata che spazzano via in un pomeriggio ogni camuffamento istituzionale e ogni travestimento da uomo di Stato del Cavaliere. No. Berlusconi resta Berlusconi, pronto a deformare lo Stato di diritto per salvaguardia personale, a limitare la libertà di stampa per sfuggire alla pubblicazione di dialoghi telefonici imbarazzanti, a colpire il diritto dell'opinione pubblica a essere informata sulle grandi inchieste e sui reati commessi, pur di fermare le indagini della magistratura.

La Repubblica vive un'altra grave umiliazione, con le leggi ad personam che ritornano, il governo del Paese ridotto a scudo privato del premier, la maggioranza parlamentare trasformata in avvocato difensore di un cittadino indagato che vuole sfuggire al suo legittimo giudice, deformando le norme.xxx

In un solo giorno - dopo la strategia del sorriso, il dialogo, l'ambizione del Quirinale - Silvio Berlusconi ha chiamato a raccolta i suoi uomini per operare una doppia azione di sfondamento alla normalità democratica del nostro sistema costituzionale. Sotto attacco, la libertà di informazione da un lato, e l'obbligatorietà dell'azione penale dall'altro.

Per la prima volta nella storia repubblicana, il governo e la sua maggioranza entrano nel campo dell'azione penale per stravolgerne le regole e stabilire una gerarchia tra i reati da perseguire. Uno stravolgimento formale delle norme sulla fissazione dei ruoli d'udienza, che tuttavia si traduce in un'alterazione sostanziale del principio di obbligatorietà dell'azione penale. Principio istituito a garanzia dell'effettiva imparzialità dei magistrati e dell'uguaglianza dei cittadini.

La nuova norma berlusconiana (presentata come un emendamento al decreto-sicurezza, firmato direttamente dai Presidenti della I e II commissione di Palazzo Madama) obbliga i giudici a dare "precedenza assoluta" ai procedimenti relativi ad alcuni reati, ma questa precedenza serve soprattutto a mascherare il vero obiettivo dell'intervento: la sospensione "immediata e per la durata di un anno" di tutti i processi penali relativi ai fatti commessi fino al 31 dicembre 2001 che si trovino "in uno stato compreso tra la fissazione dell'udienza preliminare e la chiusura del dibattimento di primo grado".

È esattamente la situazione in cui si trova Silvio Berlusconi nel processo in corso davanti al Tribunale di Milano per corruzione in atti giudiziari: con l'accusa di aver spinto l'avvocato londinese Mills a dichiarare il falso sui fondi neri della galassia Fininvest all'estero.

Quel processo è arrivato al passo finale, mancano due udienze alla sentenza. Si capisce la fretta, il conflitto d'interessi, l'urgenza privata, l'emergenza nazionale che ne deriva, la vergogna di una nuova legge ad personam. Bisogna ad ogni costo bloccare quei giudici, anche se operano "in nome del popolo italiano", anche se il caso non riguarda affatto la politica, anche se il discredito internazionale sarà massimo. Bisogna con ogni mezzo evitare quella sentenza, guadagnare un anno, per dar tempo all'avvocato Ghedini (difensore privato del Cavaliere e vero Guardasigilli-ombra del suo governo) di ripresentare quel lodo Schifani che rende il premier non punibile, e che la Consulta ha già giudicato incostituzionale, perché viola l'uguaglianza dei cittadini: un peccato mortale, in democrazia, qualcosa che un leader politico non dovrebbe nemmeno permettersi di pensare, e che invece in Italia verrà presentato in Parlamento per la seconda volta in pochi anni, a tutela della stessa persona, dalla stessa moderna destra che gli italiani hanno scelto per governare il Paese.

Con ogni evidenza, per l'uomo che guida il governo non è sufficiente vincere le elezioni, e nemmeno stravincerle: non gli basta avere una grande maggioranza alle Camere, parlamentari tutti scelti di persona e imposti agli elettori, una forte legittimazione popolare, mano libera nel dispiegare legittimamente la sua politica. No. Ancora una volta a Berlusconi serve qualcosa di illegittimo, che trasformi la politica in puro strumento di potere, il Parlamento in dotazione personale, le istituzioni in materia deformabile, come le leggi, come i poteri della magistratura.

È una coazione a ripetere, rivelatrice di una cultura politica spaventata, di una leadership fuggiasca anche quando è sul trono, di un sentimento istituzionale che abita la Repubblica da estraneo, come se fosse un usurpatore, e non riesce a farsi Stato, vivendo il suo stesso trionfo come abusivo. Col risultato di vedere il Capo dell'esecutivo chiedere aiuto al potere legislativo per bloccare il giudiziario. Qualcosa a cui l'Occidente non è abituato, un abuso di potere che soltanto in Italia non scandalizza, e che soltanto l'establishment italiano può accettare banalizzandolo, per la nota e redditizia complicità dei dominati con l'ordine dominante, che è a fondamento di ogni autoritarismo popolare e di ogni democrazia demagogica, come ci avviamo purtroppo a diventare.

Questo uso esclusivo delle istituzioni e della norma, porta fatalmente il Premier ad un conflitto con il Capo dello Stato, garante della Costituzione. Napolitano era già intervenuto, nelle forme proprie del suo ruolo, contro il tentativo di introdurre la norma anti-prostitute nel decreto sicurezza, spiegando che non si vedeva una ragione d'urgenza. Poi aveva preso posizione per la stessa ragione contro l'ingresso nel decreto della norma che porta i soldati in strada a svolgere compiti di polizia. Oggi si trova di fronte un emendamento che addirittura sospende per un anno i processi penali e ordina ai magistrati come devono muoversi di fronte ai reati, una norma straordinaria inserita come "correzione" in un decreto che parla di tutt'altro.

Che c'entra la sospensione dei processi con la sicurezza? Qual è il carattere di urgenza, davanti ai cittadini? L'unica urgenza - come l'unica sicurezza - è quella privatissima e inconfessabile del premier. Una stortura che diventa un abuso, e anche una sfida al Capo dello Stato, che non potrà accettarla. Come non può accettarla il Partito Democratico, che ieri con Veltroni ha accolto la proposta di Scalfari: il dialogo sulle riforme non può continuare davanti a questi "strappi" della destra, perché non si può parlare di regole con chi le calpesta.

Nello stesso momento, mentre blocca i magistrati e ferma il suo processo, Berlusconi interviene anche sulla libertà di cronaca. Il disegno di legge sulle intercettazioni presentato ieri dal governo, infatti, non impedisce solo la pubblicazione delle intercettazioni telefoniche, con pene fino a 3 anni (e sospensione dalla professione) per il cronista autore dell'articolo e fino a 400 mila euro per l'editore. Le nuove norme vietano all'articolo 2 la pubblicazione "anche parziale o per riassunto" degli atti delle indagini preliminari "anche se non sussiste più il segreto", fino all'inizio del dibattimento.

Questo significa il silenzio su qualsiasi notizia di inchiesta giudiziaria, arresto, interrogatorio, dichiarazione di parte offesa, argomenti delle difese, conclusioni delle indagini preliminari, richiesta di rinvio a giudizio. Tutto l'iter investigativo e istruttorio che precede l'ordinanza del giudice dell'udienza preliminare è ora coperto dal silenzio, anche se è un iter che nella lentezza giudiziaria italiana può durare quattro-sei anni, in qualche caso dieci. In questo spazio muto e segreto, c'è ora l'obbligo (articolo 12) di "informare l'autorità ecclesiastica" quando l'indagato è un religioso cattolico, mentre se è un Vescovo si informerà direttamente il Cardinale Segretario di Stato del Vaticano, con un inedito privilegio per il Capo del governo di uno Stato straniero, e per i cittadini-sacerdoti, più cittadini degli altri.

Se il diritto di cronaca è mutilato, il diritto del cittadino a sapere e a conoscere è fortemente limitato. Con questa norma, non avremmo saputo niente dello spionaggio Telecom, del sequestro di Abu Omar, della scalata all'Antonveneta, della scalata Unipol alla Bnl, del default Parmalat, della vicenda Moggi, della subalternità di Saccà a Berlusconi, dei "pizzini" di Provenzano, della disinformazione organizzata da Pollari e Pompa, e infine degli orrori della clinica Santa Rita di Milano. Ma non c'è solo l'ossessione privata di Berlusconi contro i magistrati e i giornalisti (alcuni).

C'è anche il tentativo scientifico di impedire la formazione di quel soggetto cruciale di ogni moderna democrazia che è la pubblica opinione, un'opinione consapevole proprio in quanto informata, e influente perché organizzata come attore cosciente della moderna agorà. No alla pubblica opinione (che non sappia, che non conosca) a favore di opinioni private, meglio se disorientate e spaventate, chiuse in orizzonti biografici e in paure separate, convinte che non esista più un'azione pubblica efficace, una risposta collettiva a problemi individuali.

A questo insieme di individui - di cui certo fanno parte anche gli sconfitti della globalizzazione, la nuova plebe della modernità - il populismo berlusconiano chiede solo una vibrazione di consenso, un'adesione a politiche simboliche, una partecipazione di stati d'animo, che si risolve nella delega. La cifra che lega il tutto è l'emergenza, intesa come orizzonte delle paure e fine del conformismo, del politicamente corretto, delle regole e degli equilibri istituzionali.

Conta decidere (non importa come), agire (non conta con che efficacia), trasformare l'eccezione in norma. Il governo, a ben guardare, non sta militarizzando le strade o le discariche, ma le sue decisioni e la sua politica. Meglio, sta militarizzando il senso comune degli italiani, forzandolo in un contesto emergenziale continuo, con l'esecutivo trasformato per conseguenza da organo ordinario in straordinario, che opera in uno stato d'eccezione perenne. Così Silvio Berlusconi può permettersi di venire allo scoperto in serata, scrivendo in una lettera a Schifani che la norma blocca-processi "è a favore di tutta la collettività", anche se si applica "a uno tra i molti fantasiosi processi che magistrati di estrema sinistra hanno intentato contro di me per fini di lotta politica".

È il preannuncio di una ricusazione, in una giornata come questa, vergognosa per la democrazia, con il premier imputato che rifiuta il suo giudice mentre ne blocca l'azione. A dimostrazione che Berlusconi è pronto a tutto. Dovremmo prepararci al peggio: se non fosse che il peggio, probabilmente, lo stiamo già vivendo.

(17 giugno 2008)xxx

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venerdì 13 giugno 2008

De Magistris - Indagato il Procuratore generale Dolcino Favi

(Nella foto il dr. Dolcino Favi)

Dal "Corriere della Sera.it", un articolo di Carlo Vulpio:

Per i pm ci fu un «complotto» di toghe e politici «Ostacolò de Magistris» Indagato l'ex pg Favi Il magistrato avocò l'inchiesta «Why not»

Nell'ottobre del 2007 venne aperta la cassaforte del pm di Catanzaro per prelevare a sua insaputa gli atti

SALERNO — Non fosse stato per l'inchiesta Why Not che tolse al pm Luigi de Magistris — inchiesta in cui finirono indagati anche l'ex ministro della Giustizia Clemente Mastella e l'ex premier Romano Prodi —, nessuno avrebbe mai saputo nulla del dottor Dolcino Favi.xxx


Ma da quel 19 ottobre 2007, quando da procuratore generale reggente di Catanzaro avocò a sé Why Not, Dolcino Favi da Siracusa non è più un Carneade. Perché quel giorno adottò il provvedimento più importante della sua vita. E lo fece con un tempismo e una determinazione che forse egli stesso non aveva mai sospettato di avere: Favi avocò Why Not giusto una settimana prima che scadesse la sua «reggenza » e quando il Csm aveva già nominato il procuratore titolare; subito dopo, attuò l'avocazione in una forma mai vista prima, facendo aprire la cassaforte dell'ufficio del pm de Magistris a sua insaputa, prelevandone tutti gli atti d'inchiesta. Disse, Favi, che de Magistris era in conflitto d'interessi, perché aveva iscritto sul registro degli indagati il ministro Mastella, che aveva chiesto il trasferimento del pm. E disse anche, Favi, che doveva essere il tribunale dei ministri a giudicare Mastella, benché de Magistris avesse replicato che Mastella era stato iscritto non da ministro, ma da senatore.

Dopo, diversi mesi dopo, su questi due punti cruciali de Magistris potrà dire di aver avuto ragione. Troppo tardi però. Su di lui, come sul gip di Milano, Clementina Forleo, pende una pesante quanto discutibile richiesta di trasferimento, che per entrambi è basata sullo stesso «giudizio di idoneità» formulato dal membro del Csm Letizia Vacca, che li liquidò definendoli «due cattivi magistrati». Un giudizio basato anche, veniamo a sapere oggi, sulla instancabile opera di denuncia del dottor Dolcino Favi. Ma oggi Favi, che è tornato a fare l'avvocato dello Stato, è indagato dalla procura di Salerno per rivelazione e utilizzo di segreti d'ufficio, diffamazione e calunnia. Uno dei protagonisti, sostengono i pm Gabriella Nuzzi e Dionigio Verasani, dell'operazione di denigrazione e delegittimazione del pm de Magistris, studiata a tavolino dai vertici della magistratura lucana e calabrese in combutta con politici e imprenditori. Tutta gente che adesso è indagata a Salerno.

Non più Carneade, dunque. Ma tanta notorietà forse Dolcino Favi non se l'aspettava. Non solo per l'avocazione di Why Not, ma anche per quella interrogazione parlamentare su di lui presentata nel 1989 da quattro deputati radicali — Mellini, Calderisi, Vesce e Rutelli. In quell'anno, da pubblico ministero a Siracusa, Favi venne accusato di violare sistematicamente le norme a tutela dei diritti fondamentali dell'individuo, di avere rapporti con la malavita, di aver falsificato una delega del procuratore della Repubblica di Messina per il compimento di un atto istruttorio, facendosi da sé un fonogramma e di aver firmato mandati di cattura nei confronti di alcuni magistrati catanesi sulla base di intercettazioni telefoniche irregolari. Non solo. Favi fu anche accusato di aver prodotto davanti al Csm giustificazioni inesistenti, documenti falsi e di aver persino inventato reati per la vicenda di un cavallo imbizzarrito che aveva ferito il pretore di Lentini. Insomma, un vero garantista. E infatti nei confronti di Favi il Csm e la giustizia ordinaria non hanno fatto assolutamente nulla. Carlo Vulpio Pm Luigi de Magistris, il magistrato che avviò l'inchiesta «Why Not» in cui fu indagato (e poi prosciolto) Mastella

Carlo Vulpio
13 giugno 2008 xxx

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Intercettazioni telefoniche - Leggende spacciate per verità

Considerata la chiarezza del pezzo di Luigi Ferrarella (citato nel post precedente), dal "Corriere della Sera.it", ne riporto il testo:

Leggende spacciate per verità

di Luigi Ferrarella

Una sfilza di luoghi comuni, spacciati per verità, compromette la serietà della discussione sull’annunciato intervento legislativo sulle intercettazioni. Che siano «il 33% delle spese per la giustizia», come qualcuno ha cominciato a dire e tutti ripetono poi a pappagallo, è un colossale abbaglio: per il 2007 lo Stato ha messo a bilancio della giustizia 7 miliardi e 700 milioni di euro, mentre per le intercettazioni si sono spesi non certo 2 miliardi abbondanti, ma 224 milioni. Però è una leggenda ben alimentata.xxx


Si lascia credere il falso giocando sull’ambiguità del vero, cioè sul fatto che le intercettazioni pesano davvero per un terzo su un sottocapitolo del bilancio della giustizia: quello che sotto il nome di «spese di giustizia» ricomprende anche i compensi a periti e interpreti, le indennità ai giudici di pace e onorari, il gratuito patrocinio, le trasferte della polizia giudiziaria. Spese peraltro tecnicamente «ripetibili», cioè che lo Stato dovrebbe farsi rimborsare dai condannati a fine processo: ma riesce a farlo solo fra il 3 e il 7%, eppure su questa Caporetto della riscossione non pare si annuncino leggi-lampo.

«Siamo tutti intercettati» è altra leggenda che, alimentata da una bizzarra aritmetica «empirica», galleggia anch’essa su un’illusione statistica. Il numero dei decreti con i quali i gip autorizzano le intercettazioni chieste dai pm non equivale al numero delle persone sottoposte a intercettazione.

Le proroghe dei decreti autorizzativi sono infatti a tempo (15 o 20 giorni) e vanno periodicamente rinnovate; inoltre un decreto non vale per una persona ma per una utenza. Dunque il numero di autorizzazioni risente anche del numero di apparecchi o di schede usati dal medesimo indagato (come è norma tra i delinquenti).

«Le intercettazioni sono uno spreco» è vero ma falso, nel senso che è vero ma per due motivi del tutto diversi da quello propagandato. Costano troppo non perché se ne facciano troppe rispetto ad altri Paesi, dove l’apparente minor numero di intercettazioni disposte dalla magistratura convive con il fatto che lì le intercettazioni legali possono essere disposte (in un numero che resta sconosciuto) anche da 007, forze dell’ordine e persino autorità amministrative (come quelle di Borsa).

Invece le intercettazioni in Italia costano davvero troppo (quasi 1 miliardo e 600 milioni dal 2001) perché lo Stato affitta presso società private le apparecchiature usate dalle polizie; e in questo noleggio è per anni esistito un Far West delle tariffe, con il medesimo tipo di utenza intercettata che in un ufficio giudiziario poteva costare «1» e in un altro arrivava a costare «18». Non a caso Procure come la piccola Bolzano (costi dimezzati in un anno a parità di intercettazioni) o la grande Roma (meno 50% di spese nel 2005 rispetto al 2003 a fronte di un meno 15% di intercettazioni) mostrano che risparmiare si può. E già il ddl Mastella puntava a spostare i contratti con le società private dal singolo ufficio giudiziario al distretto di Corte d’Appello (26 in Italia).

L’altra ragione del boom di spese è che, ogni volta che lo Stato acquisisce un tabulato telefonico, paga 26 euro alla compagnia telefonica; e deve versare al gestore circa 1,6 euro al giorno per intercettare un telefono fisso, 2 euro al giorno per un cellulare, 12 al giorno per un satellitare. Qui, però, stranamente nessuno guarda all’estero, dove quasi tutti gli Stati o pagano a forfait le compagnie telefoniche, o addirittura le vincolano a praticare tariffe agevolate nell’ambito del rilascio della concessione pubblica.

«Proteggere la privacy dei terzi», nonché quella stessa degli indagati su fatti extra-inchiesta, non è argomento (anche quando sia agitato pretestuosamente) che possa essere liquidato con un’arrogante alzata di spalle. Ma è obiettivo praticabile rendendo obbligatoria l’udienza-stralcio nella quale accusa e difesa selezionano le intercettazioni rilevanti per il procedimento, mentre le altre vengono distrutte o conservate a tempo in un archivio riservato. E qui proprio i giornalisti dovrebbero, nel contempo, pretendere qualcosa di più (l’accesso diretto a quelle non più coperte da segreto e depositate alle parti) e accettare qualcosa di meno (lo stop di fronte alle altre).

Prima di dire poi che «le intercettazioni sono inutili» andrebbe bilanciato il loro costo con i risultati processuali propiziati. Ed è ben curioso che, proprio chi ha imperniato la campagna elettorale sulla promessa di «sicurezza» per i cittadini, preveda adesso di eliminare questo strumento che, per fare un esempio che non riguarda la corruzione dei politici, ha consentito la condanna di alcune delle più pericolose bande di rapinatori in villa nel Nord Italia, e ancora ieri ha svelato a Milano il destino di pazienti morti in ospedale perché inutilmente operati solo per spillare rimborsi allo Stato. Senza contare (c’è sempre del buffo nelle cose serie) che proprio Berlusconi ben dovrebbe ricordare come un anno fa siano state le intercettazioni, che ora vorrebbe solo per mafia e terrorismo, a «salvare» in extremis da un sequestro di persona il socio di suo fratello Paolo.

Ma il dato più ignorato, rispetto al ritornello per cui «le intercettazioni costano troppo», è che sempre più si ripagano. Fino al clamoroso caso di una di quelle più criticate per il massiccio ricorso a intercettazioni, l’inchiesta Antonveneta sui «furbetti del quartierino». Costo dell’indagine: 8 milioni di euro. Soldi recuperati in risarcimenti versati da 64 indagati per poter patteggiare: 340 milioni, alcune decine dei quali messi a bilancio dello Stato per nuovi asili. Il resto, basta a pagare le intercettazioni di tutto l’anno in tutta Italia.

10 giugno 2008 xxx

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martedì 10 giugno 2008

Intercettazioni telefoniche - Fumo negli occhi a difesa delle caste corrotte

Fumo negli occhi a difesa delle caste corrotte, le uniche a temere realmente di essere colte con le mani nel sacco.

Effetto collaterale accettato (dalle caste): l'impunità anche dei restanti criminali (come già accaduto con l'indulto).

Dicono di voler difendere la nostra privacy
(di noi comuni cittadini-elettori), in realtà intendono mettere al sicuro loro stessi, complice l'assenza di vera Informazione, tranne rare eccezioni, voci nel deserto.

Sul tema voglio segnalare alcuni link di rinvio:

Un pregevole articolo apparso sul "Corriere della Sera" di oggi, 10.06.2008, a firma di Luigi Ferrarella, titolo significativo
"Una sfilza di leggende";

Un pezzo di Carlo Bonini su "La Repubblica", sempre di oggi, "titolo
"Dietro i numeri del Guardasigilli";

Un Post dal Blog "Uguale per tutti" -
"Intercettezioni: l'ennesimo atto contro la giustizia", dove troverete i rinvii agli stessi pezzi qui citati;

Un video di Marco Travaglio
, "Prove tecniche di fascismo", del 09.06.2008.

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domenica 8 giugno 2008

Mani pulite - Vorrebbero riscrivere la storia



Dal Blog di Antonio Di Pietro, riporto un articolo di Marco Travaglio apparso su "L'Unità" del 07.06.2008:

./.Nel paese dove il capo del governo smentisce una legge firmata da lui definendola «medievale», poi dice che parlavo «a titolo personale» quasi fosse un passante, dunque la legge rimane anche se non ha senso ed è medievale, si può dire di tutto. E anche scriverlo.xxx

Il Giornale della ditta, che pare l’inserto umoristico di Geppo e Tiramolla, quando si tratta di baggianate non si tira mai indietro. Ieri per esempio quello biondo con le mèches, in un editoriale di alta politologia, se la prendeva con le «canaglie razziste» le quali sostengono che Renato Brunetta è piccolo, e per estensione con chiunque insinui che il Cainano è basso (mentre, a suo dire, sarebbe addirittura «alto come Prodi», non si sa se coi trampoli o coi tacchi a spillo). Giusto. Rettifichiamo volentieri anche per conto terzi: Brunetta è un corazziere, il Cainano è un watusso coi boccoli alla Shirley Temple, e quello biondo con le mèches che scrive sul Giornale è un giornalista.

Sempre sul supplemento di Tiramolla compare un’intera pagina a firma Geronimo, noto nei migliori penitenziari come Paolo Cirino Pomicino, dal titolo decisamente impegnativo: «La verità su Mani Pulite: Scalfaro si piegò ai pm». Visto l’autore, c’era da attendersi piuttosto un titolo del tipo: «La verità su Mani Pulite: ecco come intascai 5,5 miliardi di lire dalla Montedison e ne girai una parte a Salvo Lima». Oppure: «La verità su Mani Pulite: ecco come fui condannato per finanziamento illecito e patteggiai per corruzione sui fondi neri Eni». Invece no: il noto pregiudicato ce l’ha con Scalfaro, che all’epoca osava persino non rubare.

Pomicino scrive falsamente che i fondi neri del Sisde «non gli furono mai contestati» perché da Presidente aveva «assecondato la Procura di Milano». Balle: del Sisde s’occupava la Procura di Roma, che regolarmente indagò Scalfaro per abuso d’ufficio al termine del suo mandato e poi archiviò tutto perché non riscontrò alcun reato, come del resto aveva fatto per altri ex ministri dell’Interno (Cossiga e Mancino).

Ma cogliamo fior da fiore dalla «verità» pomicina: «Amato ha finalmente avuto il coraggio di definire ’riprovevole’ l’uscita televisiva del pool Mani pulite contro la depenalizzazione del finanziamento illecito». Falso: non vi fu alcuna uscita televisiva del pool; solo un comunicato letto da Borrelli per smentire la bugia di Amato, cioè che il decreto Conso l’avesse chiesto il pool. «Amato inviò Francesca Contri da Borrelli per avere un suo placet sul provvedimento e lo ottenne». Falso: a parte che la Contri si chiama Fernanda, sia lei sia Borrelli han sempre smentito. Con quel decreto, per Pomicino, «il pool non avrebbe potuto più arrestare per finanziamento illecito». A parte il fatto che il pool non arrestava nessuno (era ed è compito del gip), il grosso degli arresti fu per corruzione, concussione, falso in bilancio e così via (ma depenalizzando il finanziamento non si sarebbero più scoperti quei reati).

«La mattina di domenica 7 marzo ’93 ci fu in diretta tv la minaccia ’democratica’ del pool delle proprie dimissioni dinanzi all’ eventuale promulgazione del decreto». Altra superballa: l’anziano ras andreottiano in preda ai vuoti di memoria confonde quel che accadde il 7 marzo ’93 (decreto Conso, governo Amato) con quel che successe il 14 luglio ’94 (decreto Biondi, governo Berlusconi I). Sul decreto Conso parla solo Borrelli (naturalmente non «in diretta tv»: legge un comunicato ai giornalisti) per dire che il Parlamento e il governo sono «sovrani», i pm obbediranno alla legge «quale che sia», ma non si dica che il decreto l’han chiesto loro perché è falso. Nessun accenno a dimissioni. Sul decreto Biondi parla Di Pietro circondato dai colleghi Davigo, Colombo e Greco. Borrelli non c’è: l’iniziativa è dei sostituti che gli chiedono di esonerarli dalle indagini su Tangentopoli, visto che per quei reati il decreto vieta il carcere preventivo (ma non per gli altri, creando imputati di serie A e serie B) e agevola le fughe e gli inquinamenti di prove (dopodichè Fini e Bossi costringono Berlusconi a ritirare la porcata).

Ora la memoria può tradire, selettivamente, Pomicino. Ma non dovrebbe tradire un giornale degno di questo nome. Infatti Il Giornale ha preso per buone le balle pomicine sul decreto Conso del 1993, le ha intitolate «tutta la verità» e le ha illustrate con una megafoto della conferenza stampa del Pool contro il decreto Biondi (1994) con questa didascalia: «Il documento: un’immagine della conferenza stampa in cui Di Pietro bocciò il decreto del governo Amato». Ecco. Pomicino mente con pensieri, opere e omissioni. Il Giornale mente pure con le foto.

Marco Travaglio./.
xxx

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Inchiesta penale a carico di Luigi De Magistris - Il testo della Richiesta di Archiviazione della Procura di Salerno


Pubblicato da "Il Resto", a questo link troverete il testo integrale della richiesta di archiviazione della Procura della Repubblica di Salerno.

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venerdì 6 giugno 2008

L'Informazione vista attraverso il "Caso Calabria" (Trasformato in "Caso De Magistris")


La notizia è del 05.06.2008: la Procura di Salerno chiede l'archiviazione delle numerose denunce contro il magistrato Luigi De Magistris ed afferma che «a causa delle sue inchieste ha subìto costantemente pressioni, interferenze e iniziative volte a determinarne il definitivo allontanamento dalla sede di Catanzaro e l' esautorazione dei poteri inquirenti»

E' UNA NOTIZIA BOMBA!! SI O NO?!!

Faccio una ricerca on line sul sito de "La Repubblica" e del "Corriere della Sera".
Curioso, entrambi hanno riportato la notizia alla pagina 23 del 05.06.2008, l'articolo di Repubblica è veramente scarno (Sezione: CRONACA):xxx


.\.Pm De Magistris chiesta archiviazione

Repubblica — 05 giugno 2008 pagina 23 sezione: CRONACA
CATANZARO - La Procura della Repubblica di Salerno ha chiesto l' archiviazione per le accuse nei confronti di Luigi De Magistris, sostenendo l' insussistenza di illegittimità sostanziali o procedurali penalmente rilevanti o condotte abusive addebitabili nell' esercizio delle funzioni giudiziarie del pm di Catanzaro. Nei confronti di De Magistris si ipotizzavano i reati di calunnia, abuso d' ufficio e rivelazione del segreto d' ufficio relativi alle inchieste Poseidone, Why Not e Toghe Lucane. .\.

Decisamente più curato il pezzo del Corriere (ma sempre a pag. 23!!):
.\.Toghe lucane Denunciato per calunnia e rivelazione di segreto. La Procura di Salerno: su di lui interferenze dai vertici
Accuse a de Magistris. I pm chiedono l' archiviazione

DAL NOSTRO INVIATO SALERNO - Il pm di Catanzaro, Luigi de Magistris, «a causa delle sue inchieste ha subìto costantemente pressioni, interferenze e iniziative volte a determinarne il definitivo allontanamento dalla sede di Catanzaro e l' esautorazione dei poteri inquirenti». È un provvedimento bomba quello con cui i pm di Salerno, Gabriella Nuzzi e Dionigio Verasani, chiedono l' archiviazione per de Magistris, i giornalisti e gli investigatori denunciati da quei vertici della magistratura di Calabria e di Basilicata a loro volta indagati da de Magistris (con le inchieste «Poseidone» e «Why Not», che gli sono state tolte, e con «Toghe Lucane», che sta portando a termine). I pm salernitani escludono che de Magistris e i suoi presunti «complici» siano colpevoli di abuso d' ufficio, calunnia e rivelazione di segreto d' ufficio. Anzi, sottolineano «la correttezza formale e sostanziale dell' azione inquirente» del pm di Catanzaro, che «ha subìto una serie di interventi concertati» - dagli stessi magistrati sui quali indagava e tra costoro e uomini politici, funzionari ministeriali e persino membri del Csm - «a causa dell' intensità e incisività delle sue indagini». Com' è noto, il Csm vorrebbe trasferire de Magistris e non fargli fare più il pm. Ma adesso sarà un po' più difficile. Si dovrebbero ignorare le mille pagine dei magistrati salernitani. In cui si narrano molte cose incredibili. Per dirne una, il presidente della prima commissione del Csm, Antonio Patrono, parla a lungo con il viceprocuratore di Potenza, Felicia Genovese, indagata a Catanzaro, e la tranquillizza quando lei «ne sollecita l' interessamento, insieme con altri componenti del Csm, tra cui il dottor Ferri e il dottor Giulio Romano, della sua stessa corrente, componente della sezione disciplinare del Csm e relatore della sentenza emessa nei confronti di de Magistris». La verità, dicono i pm Nuzzi e Verasani, è che de Magistris, a Catanzaro, «ha operato in un contesto giudiziario connotato da un' allarmante commistione di ruoli e fortemente condizionato dal perseguimento di interessi extragiurisdizionali, anche di illecita natura». Affari, insomma. E coperture giudiziarie. Il tutto, da custodire nel silenzio, mica da mettere in piazza con avvisi di garanzia e decreti di perquisizione. Ecco spiegate, dunque, la raffica di denunce agli organi disciplinari, la raffica di interrogazioni parlamentari e la raffica di ispezioni ministeriali contro de Magistris: un crescendo in progressione geometrica, tre anni di ininterrotte radiografie. Lo scopo di questa «pressante attività di interferenza nelle indagini» (che intanto ha centrato l' obiettivo, perché Poseidone e Why Not sono state demolite scientificamente) era quello di «determinare il definitivo allontanamento di de Magistris dalla sede di Catanzaro e l' esautorazione dei poteri inquirenti». Più grave di questo disegno ci sarebbe solo il golpe di un manipolo di colonnelli. E tuttavia, queste «denunce infondate, strumentali e gravi» contro il pm che si era permesso di indagare sui miliardi di fondi pubblici Ue, su magistrati e militari, segretari di partito e parlamentari, e persino su un ministro della Giustizia e un presidente del Consiglio, sono state le stesse denunce alla base del solerte lavoro che ha portato gli ispettori ministeriali Arcibaldo Miller e Gianfranco Mantelli (indagato anch' egli a Salerno) a chiedere il trasferimento di de Magistris e il Csm a condannarlo. E sono le stesse denunce che hanno permesso, e tutt' ora permettono, a una procura piena di magistrati indagati come quella di Matera (dal capo Giuseppe Chieco, ai pm Annunziata Cazzetta, Valeria Farina Valaori, Paola Morelli, al gip Angelo Onorati) di inventarsi l' originale reato di «associazione a delinquere finalizzato alla diffamazione a mezzo stampa» per indagare sul pm di Catanzaro e metterne sotto controllo telefoni e ogni mossa investigativa. E sempre grazie a quelle denunce il procuratore generale di Potenza, Vincenzo Tufano, rivela, lui sì «e a mezzo stampa» - sostengono i pm di Salerno - quei segreti d' ufficio che si volevano spifferati da de Magistris e presunti «complici». In tutto questo periodo, scrivono i pm di Salerno, il tiro al bersaglio degli altri indagati eccellenti - il gip di Catanzaro, Adalgisa Rinardo, il procuratore aggiunto Salvatore Murone, il senatore Giancarlo Pittelli, l' ex senatore ed ex membro del Csm, nonché sindaco di Matera, Nicola Buccico, l' imprenditore Antonio Saladino, l' ex procuratore reggente Dolcino Favi e l' ex governatore di Calabria, Giuseppe Chiaravalloti - non si è mai fermato, né è mai stato ostacolato da alcuna autorità che ne avesse il potere. Del resto, Chiaravalloti, in quella conversazione telefonica ormai nota come «la profezia di Chiaravalloti» lo aveva detto: «De Magistris passerà gli anni suoi a difendersi». Ma il profeta si è fermato a Salerno. Dove la storia è appena cominciata. * * * La vicenda Le accuse Il pm Luigi de Magistris viene indagato per calunnia, abuso di ufficio e violazione del segreto istruttorio. Ad accusarlo, alcuni magistrati coinvolti nelle inchieste «Toghe lucane», «Poseidone» e «Why not» L' archiviazione I pm di Salerno hanno chiesto l' archiviazione per de Magistris e per i giornalisti Carlo Vulpio (Corriere della sera), Gian Loreto Carbone (Chi l' ha visto), Nicola Piccenna, Nino Grilli e Manuele Grilli, rispettivamente redattore, direttore ed editore del settimanale Il resto, ai quali era stato contestato, in concorso con il capitano Pasquale Zacheo, l' associazione per delinquere finalizzata alla diffamazione Le indagini del pm «Poseidone»: de Magistris indaga su 250 milioni Ue finiti nelle tasche di politici. Il gip chiede l' archiviazione per Giancarlo Pitelli (Fi), Lorenzo Cesa (Udc)e il generale Walter Cretella «Why not»: parte da assunzioni a figli di politici. Indagati anche l' ex premier Romano Prodi e l' allora ministro Clemente Mastella, poi prosciolto. Prosegue il filone sul comitato d' affari locale «Toghe Lucane»: viene ipotizzato un comitato d' affari per condizionare nomine pubbliche

Vulpio Carlo.\.xxx

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La Giustizia vista con la lente del "Caso Calabria"



Dal Blog "19 luglio 1992", curato da Salvatore Borsellino, uno scritto del dr. Felice Lima, magistrato.

Contro De Magistris accuse false e pretestuose
Scritto da Felice Lima
giovedì 05 giugno 2008 17:12

di Felice Lima
(magistrato)


1 – L’antefatto.

Il cosiddetto “caso De Magistris”, tradendo le aspettative di chi pensava che, come accaduto altre volte, si sarebbe potuta “liquidare la pratica” nella disattenzione generale, con un ingiusto marchio di infamia sul collega, è destinato a “lasciare il segno” dentro la magistratura e fuori, perché ha fatto emergere in maniera clamorosa alcune inaccettabili contraddizioni che minano, ormai sembra irreversibilmente, la credibilità dell’autogoverno della magistratura, sia sotto il profilo istituzionale (C.S.M.) che sotto quello associativo (A.N.M.).

Per comprendere cosa è accaduto, occorre partire dalla situazione della Calabria, meravigliosa regione del meridione afflitta da un grave ritardo di sviluppo, da una gravissima crisi di legalità e (in rapporto di effetto e causa) da una giustizia decisamente – e purtroppo volutamente – inefficiente, nonostante l’impegno di tanti magistrati che si spendono con coraggio e senza risparmio.xxx


La misura del problema è data dal dato statistico che emerge dall’ultimo libro di Piercamillo Davigo (“La corruzione in Italia, percezione sociale e controllo penale”), secondo il quale le condanne definitive per concussione intervenute nel distretto della Corte di Appello di Reggio Calabria tra il 1983 e il 2002 (ben 19 anni!!) sono UNA e quelle per corruzione sono DUE!

In pratica, o a Reggio Calabria non c’è la corruzione (!?) o la magistratura non la vede.

In questo contesto è arrivato un onesto magistrato napoletano (Luigi De Magistris, appunto), che si è messo a lavorare e ha avviato diverse inchieste per fatti molto gravi che coinvolgono magistrati, politici e imprenditori.

Come ho già detto, questo magistrato non è certamente l’unico che si è impegnato con coraggio e generosità in Calabria, sicché la sua storia non deve essere utilizzata per delegittimare indiscriminatamente tutti i magistrati calabresi. Ma resta una storia emblematica, sicché neppure i magistrati calabresi per bene devono negare (come alcuni hanno fatto) l’evidenza dei fatti che da essa emergono.

All’avvio delle indagini di De Magistris, immediatamente un gruppo eterogeneo ma molto coeso di persone “controinteressate” alle stesse (magistrati, politici, imprenditori) si è adoperato in ogni modo per fermare il collega e alcuni hanno chiesto a gran voce pubblicamente alla Procura Generale della Cassazione e al C.S.M. di fermare il magistrato, punirlo e cacciarlo.

E la cosa è già in sé molto preoccupante, perché sviluppa ulteriormente la prassi eversiva dell’ordine democratico per la quale nel nostro Paese le persone a vario titolo “potenti” non si difendono “nel” processo, ma “dal” processo.

Ordinariamente, le inchieste finiscono o con una archiviazione o con un rinvio a giudizio (e in questo secondo caso i rinviati a giudizio hanno modo di difendersi nel processo). Le inchieste di De Magistris hanno avuto un terzo tipo di esito: sono state fermate o “dirottate”.

E in questo senso è andata – nei fatti e indipendentemente dalle intenzioni che li muovevano – l’attività di tanti, che, ciascuno per quanto di competenza, hanno concretamente ostacolato le indagini. E, altra cosa di notevole rilievo, molti di costoro sono magistrati!

Ci sono state così (fra l’altro e non solo):

1. fughe di notizie;

2. campagne di stampa denigratorie e diffamatorie contro il magistrato inquirente;

3. interpellanze parlamentari a decine;

4. ispezioni ministeriali numerose e pluriennali;

5. una revoca di assegnazione da parte del Procuratore Capo;

6. una avocazione definita pubblicamente da un autorevole collega “impensabile”, priva di fondamento giuridico e attuata con modalità che preoccupano non poco.



2 – Le ispezioni “atipiche”.

Delle ispezioni ministeriali va detto che esse sono state numerose e reiterate, sono durate tre anni, sono cominciate nel gennaio del 2005 su impulso del ministro Castelli e sono proseguite, in perfetto stile, come va di moda dire, bipartisan, con il ministro Mastella, finito, poi, anch’egli fra gli indagati e, dunque, “controinteressato” alle indagini.

E tutto ciò qualifica palesemente come molto discutibili quelle “ispezioni”.

Le ispezioni ministeriali, infatti, dovrebbero servire a verificare la sussistenza o meno di irregolarità specifiche in ipotesi commesse dal magistrato “ispezionato”. Ma è di tutta evidenza che, se hai un fatto specifico da accertare, vai, lo accerti e torni a Roma.

Ispettori che stanno tre anni a “ispezionare” un ufficio di Procura non sono andati lì a verificare un’ipotesi specifica, ma a cercare esplorativamente “qualcosa” o meglio “qualsiasi cosa”.

Ispezioni che durano tre anni sono palesemente finalizzate ad altro rispetto a ciò a cui dovrebbero servire per legge e, in ogni caso, foss’anche eventualmente al di là delle intenzioni, finiscono con il costituire una pesante interferenza nell’attività di indagine, della quale, per di più, finiscono con il violare la segretezza, cosa tanto più grave se si considera che da ultimo, il titolare del potere ispettivo era anche uno degli indagati dal magistrato ispezionato.

Non poco disagio, peraltro, ha creato il fatto che ispezioni tanto peculiari siano state difese – nel corso della trasmissione Annozero del 4 ottobre 2007 – proprio da un magistrato, allora sottosegretario e oggi Ministro della Giustizia, con argomenti davvero imbarazzati e imbarazzanti, arrivando a evocare male (citando fatti non veri), contro De Magistris, la memoria di Paolo Borsellino (dei preoccupanti rapporti fra magistratura e politica dirò ancora più avanti).

Alla fine di tutto questo, la Procura Generale della Cassazione e il Consiglio Superiore della Magistratura hanno fatto, nella sostanza, ciò che veniva loro chiesto dai “controinteressati alle indagini”.

La Procura Generale ha formulato contro Luigi De Magistris moltissime incolpazioni disciplinari e il C.S.M. lo ha condannato e trasferito all’esito di un processo lampo durato un mese (iniziato con la notifica dell’incolpazione a metà dicembre del 2007 e finito con la pronuncia della sentenza il 18 gennaio 2008).

Va aggiunto anche che la Procura Generale ha formulato a carico di De Magistris molte incolpazioni dichiarate infondate dallo stesso C.S.M. e qualcuna addirittura nulla, per la palese indeterminatezza degli addebiti (penso a quelle contraddistinte nella sentenza con le lettere “I” ed “M”), con un accanimento che sarebbe stato giudicato certamente in maniera molto negativa se posto in essere da un altro pubblico ministero nei confronti di un qualunque indagato.

Così stando le cose, la sentenza della Sezione Disciplinare è l’elemento di discrimine di tutta la storia.

Perché se quella sentenza fosse, non dico condivisibile, ma almeno difendibile, allora si potrebbe ipotizzare che la coincidenza fra desideri dei “controinteressati alle indagini” e azione della Procura Generale e del C.S.M. sia stata puramente casuale.

Ma se la sentenza fosse tecnicamente non difendibile, allora le conclusioni da trarre sarebbero altre e molto gravi.

Perché bisognerebbe prendere atto che la Procura Generale e il C.S.M., anziché difendere l’indipendenza dei magistrati e l’imparzialità della giurisdizione, avrebbero finito nei fatti per danneggiarle gravemente.

Il numero e la complessità dei capi di incolpazione ne impedisce un’analisi completa e approfondita in questa sede.

Ne proporrò, quindi, una sintetica e limitata ai capi più significativi, rinviando per ulteriori approfondimenti (perché le ragioni tecniche di critica della sentenza sono davvero molte di più di quelle che in sintesi esporrò qui) al blog “Uguale per Tutti” (www.toghe.blogspot.com), che curo con alcuni colleghi, dove abbiamo pubblicato l’intera motivazione della sentenza, l’atto di incolpazione, la memoria difensiva di Luigi De Magistris e diverse analisi tecniche approfondite dei singoli capi della sentenza (segnalo, fra gli altri, per pregio tecnico e profondità di analisi, gli scritti del collega Nicola Saracino).

Da quegli scritti emerge non solo che la sentenza è tecnicamente ben poco convincente, ma che molti passaggi della motivazione (penso, fra gli altri, a quelli relativi al capo “E” di incolpazione) appaiono pretestuosi e tali da provocare la sensazione che il giudice, più che chiedersi “se” condannare o no De Magistris, possa essersi impegnato a cercare solo “come” condannarlo.


3 – Il G.I.P. che non convalida i fermi.

Venendo all’esame della sentenza, la parte di essa che desta più grande stupore è proprio quella relativa al capo “E” di incolpazione.

Il fatto si può riassumere dicendo che circa un anno prima Luigi De Magistris aveva inviato al G.I.P. di Catanzaro una corposa richiesta di misure cautelari nei confronti di numerosi presunti criminali per reati di estrema gravità.

Il G.I.P., pur dopo molti mesi, non aveva ancora neppure esaminato la richiesta.

A seguito di segnalazioni delle autorità di polizia che riferivano delle gravi conseguenze della mancata adozione delle misure cautelari vanamente richieste al G.I.P., Luigi De Magistris ha adottato un provvedimento di fermo di alcune decine di indagati e, nelle 48 ore previste dalla legge, ha chiesto la convalida dei fermi ai G.I.P. di diverse città (competenti alla convalida dei fermi sono, infatti, i G.I.P., dei luoghi nei quali i fermi vengono eseguiti).

TUTTI i G.I.P. destinatari della richiesta l’hanno accolta, convalidando i fermi e adottando le misure cautelari, tranne il G.I.P. di Catanzaro, che, invece, ha sostenuto che la mancanza nella richiesta delle parole testuali “chiedo la convalida dei fermi” dovesse intendersi nel senso che quella richiesta non c’era e non ha convalidato i fermi, nonostante Luigi De Magistris gli avesse pure inviato immediatamente una lettera per rendere esplicito (benché non ve ne fosse necessità) che scopo del suo atto era proprio anche la richiesta di convalida dei fermi.

Benché si stenti a crederlo, Luigi De Magistris è stato condannato perché nella sua richiesta di convalida e misure cautelari mancava la frase testuale “chiedo la convalida dei fermi”. E certo fa pensare che dopo tre anni di ispezioni in una regione dove l’illegalità è massicciamente presente, l’attenzione dei magistrati ispettori sia stata attirata proprio da una cosa del genere. Quando si dice “non sapere a cos’altro aggrapparsi”.

La Procura Generale fonda il capo d’accusa sull’art. 2 lett. g) del D.L.vo n. 109 del 2006. Ma secondo quella norma costituisce illecito disciplinare solo la “violazione di legge” che sia “grave” e “determinata da negligenza inescusabile”.

Nel caso di specie, mancano sia la “violazione di legge” che la “gravità” di essa che la “negligenza inescusabile”.

Non c’è la “violazione di legge” per due motivi.

Il primo è che è principio di diritto pacifico quello per il quale «nell’esercizio del potere di interpretazione e qualificazione della domanda il giudice di merito [in questo caso il G.I.P.], da un lato, non è condizionato dalle espressioni adoperate dalla parte, dall’altro, ha il potere-DOVERE di accertare e valutare il contenuto sostanziale della pretesa, quale desumibile non solo dal tenore letterale degli atti, ma anche dalla natura delle vicende rappresentate dalla parte e dalle precisazioni dalla medesima fornite nel corso del giudizio, nonché dal provvedimento concreto dalla stessa richiesto, con i soli limiti della corrispondenza tra chiesto e pronunciato e di non sostituire d’ufficio un’azione diversa da quella esercitata» (Cass. Sez. III Civ., 28 luglio 2005, n. 15802, e moltissime altre tutte conformi).

Dunque, il solo fatto che, nella richiesta di Luigi De Magistris non ci fossero le parole testuali “chiedo la convalida dei fermi” non era decisivo, essendo DEL TUTTO OVVIO che egli intendeva ottenere anche quella (oltre alle misure cautelari). Dunque, sotto il profilo tecnico, secondo la mia modesta opinione, se “errore” c'è stato, l’ha commesso il G.I.P. e non il P.M..

Ma per di più, non ci sarebbe stata violazione di legge neppure se De Magistris non avesse chiesto la convalida, essendo pacifico che egli poteva legittimamente non chiederla.

Ciò lo riconosce lo stesso C.S.M., che, per giustificare il G.I.P. che incomprensibilmente si è fermato alla ricerca delle parole testuali e “scaricare” su De Magistris la responsabilità della mancata convalida, scrive nella sentenza che «il deposito del provvedimento del fermo non comportava necessariamente la richiesta della sua convalida potendo il P.M. anche disporre l’immediata liberazione del fermato ed OMETTERE LA RICHIESTA DI CONVALIDA».

Ma nel caso di specie una volontà del P.M. di liberare i fermati era da escludere categoricamente, chiedendo egli, proprio al contrario, la custodia cautelare per loro (e, dunque, l’alibi offerto dal C.S.M. al G.I.P. non regge) e, comunque, per di più, il C.S.M. sbaglia in diritto quando limita l’ipotesi della mancata richiesta di convalida al solo caso della liberazione dei fermati, perché il P.M. può decidere del tutto legittimamente di non chiedere la convalida dei fermi anche nel caso in cui non intenda liberare i fermati, ma chiedere per loro – come avvenuto – misure di custodia (ciò il P.M. fa quando per qualche ragione ritenga il fermo non convalidabile, impregiudicate le conseguenze in altra sede di un fermo eventualmente illegittimo).

In ogni caso, resta pacifica e riconosciuta dallo stesso C.S.M. la legittimità della non richiesta di convalida da parte del P.M., sicché resta oscuro come questo possa essere stato ritenuto a carico di De Magistris “violazione di legge” disciplinarmente rilevante.

Per di più, l’omessa richiesta di convalida – ove pure si fosse potuta (e non si sa proprio come) ritenere illegittima – non poteva essere ritenuta né “grave” né conseguente a “negligenza inescusabile”, come, invece, indispensabile per una condanna.

La mancata richiesta di convalida dei fermi, infatti, non solo non ebbe, di per sé sola, alcuna conseguenza pratica nel caso concreto, ma non ne avrebbe potuta avere neppure in teoria in nessun caso simile.

Infatti, una volta richieste al G.I.P. (come ha fatto De Magistris) le misure cautelari, due soli esiti erano possibili:

- che il G.I.P. accogliesse la richiesta di misure cautelari

- che il G.I.P. la rigettasse.

Se l’avesse accolta, i fermati sarebbero rimasti in carcere anche se il fermo non fosse stato convalidato.

Se l’avesse rigettata, i fermati sarebbero stati scarcerati anche se il fermo fosse stato convalidato.

Ma vi è ancora dell’altro.

Per tentare di dare una qualche motivazione all’elemento della “gravità” della colpa (palesemente insussistente), i Consiglieri del C.S.M. ricorrono a quello che appare con evidenza un inaccettabile paralogismo, scrivendo a pag. 27 della sentenza che «la qualificazione “grave” va posta in relazione sia all’importanza della norma violata sia al carattere evidente, indiscutibile, dell’errore, come tale necessariamente conseguenza di una “negligenza inescusabile”».

In sostanza, secondo il C.S.M. qualunque errore “evidente, indiscutibile” sarebbe per ciò solo “grave” e conseguenza di “negligenza inescusabile”.

Se così fosse, se io, intestando una mia sentenza, anziché scrivere “il giudice Felice Lima” scrivessi per un lapsus calami “il giudice Francesco Lima”, essendo l’errore “evidente e indiscutibile” esso sarebbe “necessariamente conseguenza di una negligenza inescusabile” e per ciò stesso “grave”!?

Il tutto contro ogni evidenza, sia di diritto sia ancor prima di lessico: “evidente” significa una cosa, “grave” tutt’altra.

Dunque, bisogna prendere atto che è il C.S.M. (e non De Magistris) ad avere commesso una “violazione di legge”, che è anche “evidente”, attuata con una circonlocuzione paralogica che, per poter condannare De Magistris, ha fatto diventare punibili non solo gli errori “gravi” , ma anche quelli del tutto irrilevanti, ma “evidenti”!

Ed è inutile sottolineare quanti “errori” banali come quello qui in discussione, quante parole saltate in provvedimenti di decine di pagine ci siano in migliaia di provvedimenti giudiziari, senza che questo provochi conseguenze disciplinari per nessuno.

Infine, nella sentenza, per cercare di dare una qualche consistenza a una motivazione che, sul punto, non solo non ne ha ma tradisce l’uso di argomenti pretestuosi, si invoca contro De Magistris l’autorevolezza del Procuratore Lombardi e si assume che egli sarebbe «credibile, in quanto anch’egli firmatario dei provvedimenti di fermo e di richiesta custodiale» (pag. 27).

Ma così allora ci si deve chiedere: se Lombardi è «anch’egli firmatario dei provvedimenti di fermo e di richiesta custodiale», allora è – INDISCUTIBILMENTE – anch’egli responsabile, al pari di De Magistris, della forma e del contenuto di quegli atti.

Ma, allora, perché la Procura Generale ha mosso l’addebito a De Magistris e non anche a Lombardi?

Così come ci si deve chiedere perché nulla risulti a carico del G.I.P. che omette per mesi di adottare un qualunque provvedimento su una richiesta urgente e grave di misure cautelari e adotta poi, sulla richiesta di convalida dei fermi, un provvedimento in parte almeno discutibile e in parte smentito subito dopo dal Tribunale del riesame.

Misteri del rigore “senza se e senza ma”!



4 – L’iscrizione segretata.


Altro capo della sentenza sorprendente è quello relativo alla incolpazione contraddistinta dalla lettera “G”.

La vicenda si può riassumere dicendo che, nel corso delle indagini, sono emersi indizi di responsabilità a carico del senatore avv. Giancarlo Pittelli e del generale Walter Cretella Lombardo. Ciò imponeva l’iscrizione dei loro nomi nel registro degli indagati. Adempimento necessario per far decorrere il termine di durata massima delle indagini preliminari.

Va detto che accade molto frequentemente, per le più diverse ragioni, che questo tipo di iscrizione venga fatta con ritardo dai magistrati del pubblico ministero, non foss’altro perché, in procedimenti complessi, il momento in cui il magistrato si rende conto – analizzando in maniera approfondita tutte le emergenze processuali – della sussistenza di indizi a carico di questo o di quello varia moltissimo.

La giustizia disciplinare non sanziona questi ritardi, in molti casi fisiologici.

Il dr De Magistris, dunque, avrebbe potuto ritardare senza alcuna conseguenza per sé l’iscrizione di quei nomi nel registro degli indagati, ma ha deciso di provvedervi, invece, con assoluta tempestività e diligenza.

Ha ritenuto, però, che, se avesse provveduto a quella iscrizione nei modi consueti, essa sarebbe venuta a conoscenza del Procuratore Capo e ha temuto che questi – come a suo dire era già avvenuto in passato, sulla base di elementi di giudizio che lo hanno portato a denunciarlo alla competente Procura di Salerno – ne avrebbe informato gli indagati, essendo legato da vincoli di particolare amicizia con il Pittelli, difensore del Cretella Lombardo.

Dunque, ha redatto tempestivamente l’atto di iscrizione, ma lo ha custodito riservatamente in una cassaforte, riservandosi di annotarlo negli appositi registri non appena ciò non avesse potuto più essere causa di danno per le indagini.

Anche in questo caso non si può dire che la scelta del dr De Magistris abbia avuto conseguenze sotto alcun profilo “gravi”, perché, proprio al contrario, è rimasta priva di qualsiasi conseguenza concreta, dato che la durata delle indagini, a presidio della quale sta l’iscrizione nel registro degli indagati, non ha poi concretamente superato i termini imposti dalla legge.

E anche in questo caso gli argomenti dell’accusa prima e della condanna poi danno una sgradevole impressione di pretestuosità.

Basti dire che la Procura Generale contesta l’addebito di cui alla lett. “a” dell’art. 2 del D.L.vo 109/2006, che punisce solo «i comportamenti che, violando i doveri di cui all'articolo 1, arrecano ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti», e, per cercare a tutti i costi un “danno” ipotizzabile, scrive nell’incolpazione che con questo comportamento «il dott. De Magistris impediva al Procuratore dott. Lombardi di astenersi in relazione ad un procedimento del quale era coassegnatario, e che vedeva quale indagata persona con cui, come riferito dallo stesso Lombardi, aveva un ventennale rapporto di amicizia e frequentazione»!?

Ma davvero non è possibile comprendere che tipo di “danno” potrebbe mai ipotizzarsi a carico del Procuratore Lombardi per … non essersi potuto astenere!?

Mentre, anche in questo caso, stupisce non poco che la Procura Generale non abbia dato (che si sappia) alcun seguito alla circostanza che il Procuratore Lombardi successivamente si è effettivamente astenuto, ma non prima – come, invece, avrebbe dovuto – di revocare l’assegnazione del fascicolo a De Magistris.

Il Lombardi, in sostanza, per un verso ha riconosciuto di non potere trattare quel procedimento, ma ha adottato ugualmente un provvedimento incompatibile con la sua astensione: la revoca dell’assegnazione (alla quale conseguono i fatti oggetto del capo “A” di incolpazione), che ha tolto al P.M. che la conduceva l’indagine che coinvolgeva il suo intimo amico.

La Procura Generale ha contestato in questo capo di incolpazione anche l’ipotesi di cui alla lett. “g” dell’art. 2 citato, che punisce, però, solo «la grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile», mentre è evidente che in questo caso De Magistris non ha agito né con ignoranza, né con negligenza, ma intenzionalmente, per difendere la segretezza dell’indagine.

E ancora l’ipotesi di cui alla lettera “m” dell’art. 2, che punisce, però, solo «l'adozione di provvedimenti adottati nei casi non consentiti dalla legge, per negligenza grave e inescusabile, che abbiano leso diritti personali o, in modo rilevante, diritti patrimoniali», mentre è sicuro che qui non sono stati lesi diritti patrimoniali, e, in concreto, neppure diritti personali.

Insomma, numerose contestazioni palesemente non pertinenti con i fatti, che sembrano costruite per risolvere il problema creato dal fatto che la condotta di De Magistris non rientrava in alcuna specifica ipotesi tipica di responsabilità disciplinare.

Per altro verso, poi, va detto che, anche ad ammettere che la scelta di segretare l’iscrizione compiuta da De Magistris fosse discutibile, andrebbe comunque riconosciuto che egli si trovò dinanzi all’alternativa ineludibile fra la tutela di due beni che, risultavano, nel caso concreto, alternativi: rispettare le procedure formali di registrazione della iscrizione dei nomi, esponendo l’inchiesta al concreto pericolo di un favoreggiamento, oppure difendere la segretezza e l’efficacia delle indagini, segretando l’iscrizione. I due beni non si potevano tutelare insieme e, a mio parere, chiunque – a anche la Procura Generale e il C.S.M. – dovrebbero riconoscere che, in un tale frangente, non può essere ritenuta colpa e per giunta grave l’avere rispettato la legge che vieta il favoreggiamento, non violando, ma applicando in maniera adeguata al caso quella che regola l’iscrizione degli indagati nell’apposito registro.

Così come la Procura Generale e il C.S.M. avrebbero dovuto riconoscere che l’alternativa dinanzi alla quale si trovò De Magistris era dovuta al fatto certamente diciamo così inconsueto di un Sostituto Procuratore che abbia ragionevoli motivi di temere che il suo capo favorisca gli indagati.

Ovviamente non è possibile dire qui se i timori di De Magistris nei confronti del suo procuratore fossero o no fondati.

Si può dire, però, che egli certamente li riteneva tali, emergendo ciò con evidenza dal fatto che, come risulta anche dalla stessa sentenza del C.S.M., egli ha denunciato il Procuratore e l’Aggiunto alla competente Procura di Salerno, dove, stando alle notizie di stampa (le uniche delle quali dispongo: cfr, fra gli altri, Il Giornale del 13.1.2008), il Procuratore Lombardi e l’Aggiunto Murone risultano indagati, fra l’altro, per corruzione in atti giudiziari.

E qui emerge un altro aspetto sorprendente di questa vicenda.

Sembra evidente, infatti, che l’esito delle indagini di Salerno avrebbe potuto essere molto rilevante per la vicenda disciplinare qui in discussione, perché, se nel poco tempo che resta per concludere quelle indagini, risultassero fondate le ipotesi di reato a carico dei vertici della Procura di Catanzaro, risulterebbe ancora più clamoroso che la Procura Generale della Cassazione e il C.S.M. abbiano perseguito con tale tempestività e durezza De Magistris e solo lui invece che altri o almeno anche altri.

Dunque, il difensore del collega De Magistris ha chiesto formalmente al C.S.M. di attendere l’esito delle indagini di Salerno prima di concludere il processo disciplinare (certamente non urgente, come si afferma nella stessa sentenza, con ciò rigettandosi la richiesta cautelare avanzata dal Ministro Mastella). Ma questa istanza è stata rigettata.


5 – L’accusa di “gettare discredito”.

Altra incolpazione sorprendente è quella contraddistinta dalla lettera “F”, con la quale si addebita a De Magistris di avere «generato, nei confronti dei superiori e di altri magistrati, sospetti non suffragati da elementi probanti, con conseguente oggettivo discredito per l’istituzione giudiziaria».

Da questo addebito Luigi De Magistris è stato assolto, avendo il C.S.M. rilevato che ciò che la Procura Generale considerava “sospetti fonti di discredito” era stato oggetto di specifiche denunce alle competenti autorità da parte dello stesso De Magistris. Ma resta davvero significativo che la Procura Generale, dinanzi a una denuncia a carico di magistrati per fatti costituenti gravi reati, invece di preoccuparsi di verificare se i reati sono stati commessi o no, processi il denunciante accusandolo di gettare “oggettivo discredito sull’istituzione giudiziaria”!!

Questo certo non incoraggerà altri magistrati che si imbattano in reati commessi da colleghi a denunciarli!


6 – Il decreto di perquisizione motivato “troppo”.

Una menzione merita, infine, anche il capo di incolpazione indicato con la lettera “B”.

Il C.S.M. ha condannato De Magistris perché nella motivazione di un decreto di perquisizione ha riportato integralmente – come indizi a carico dell’indagato, che era il Procuratore Generale di Potenza dr Vincenzo Tufano – le dichiarazioni di un altro magistrato, che riferiva, fra l’altro, della mancata vigilanza da parte del Procuratore su un caso di incompatibilità fra un giudice e un pubblico ministero, originato da una relazione sentimentale asseritamente esistente fra i due.

La condanna lascia tecnicamente molto perplessi, per una serie di ragioni, che si possono sintetizzare dicendo che:

- la Procura Generale, nell’incolpazione compie un inammissibile (come tale non condiviso dallo stesso C.S.M. nella sentenza qui in discussione) sindacato di merito sulla pertinenza o no dei riferimenti contenuti nella motivazione del provvedimento di perquisizione;

- il C.S.M. riconosce che è legittimo inserire in atti giudiziari riferimenti a terze persone di contenuto tale da lederne anche l’onore, se conosciuti all’esterno, (cosa, peraltro, che succede abitualmente in mille provvedimenti relativi a persone “non potenti”, senza che ciò stupisca nessuno), ma sostiene che ciò avrebbe dovuto essere fatto nel caso di specie verificando previamente la fondatezza o meno dei riferimenti. Per comprendere la paradossalità di questa tesi del C.S.M. basti considerare che, per accertare il fatto incidentale, il P.M. avrebbe dovuto svolgere indagini che avrebbero potuto comportare una discovery anticipata e dannosa dell’indagine. L’indagine, peraltro, è un insieme di accertamenti e, per necessità logica e cronologica, alcuni vengono svolti prima di altri e, frattanto, tutti si intrecciano fra loro. E’ dunque logicamente impossibile che tutti siano verificati “previamente”;

- il C.S.M. parla di diffusione del contenuto del decreto di perquisizione e di danno all’onore dell’indagato, ma il decreto di perquisizione è atto destinato a restare riservato, sicché, nel redigerlo, il P.M. non deve porsi il problema di una sua eventuale pubblicità. Diversamente, non si potrebbe scrivere nulla a carico di alcun indagato neppure negli atti interni a una indagine;

- la Procura Generale, nel capo di incolpazione, accredita le sue tesi riferendo che il decreto di perquisizione è stato annullato dal Tribunale del riesame, ma tace che ciò è avvenuto solo con riferimento alla posizione di altro indagato, mentre il Procuratore Generale dr Tufano non ha neppure impugnato l’atto, al quale, dunque, ha prestato sostanzialmente acquiescenza.


7 – Il C.S.M., l’A.N.M. e la politica.

Tutto ciò posto, prima di concludere occorre ancora dare conto di altri due aspetti molto rilevanti di questa vicenda.

Il primo relativo al fatto che i vertici del C.S.M. hanno assunto in essa condotte davvero gravi e sorprendenti.

In particolare, Letizia Vacca, componente c.d. laico del C.S.M., indicata dal Partito dei Comunisti Italiani, Vicepresidente della Prima Commissione, ha ritenuto di dichiarare pubblicamente, in presenza di numerosi giornalisti che vi hanno dato ampio risalto, parlando al plurale, a nome di tutta la Commissione, che Luigi De Magistris è “un cattivo magistrato” e che “deve essere colpito” perché ciò resti chiaro.

E appare di tutta evidenza quale grave violazione dei suoi doveri e quale irreparabile vulnus alla credibilità dell’istituzione che rappresenta sia venuto da queste dichiarazioni della prof. Vacca, che denunciano una palese e dichiarata prevenzione di giudizio dell’istituzione che dovrebbe mantenere serenità, riserbo e, soprattutto, imparzialità nel giudicare i magistrati, la cui indipendenza è affidata alla sua tutela. E altrettanto evidente è quanto sia grave che la prof. Vacca, non solo abbia formulato quegli inaccettabili giudizi, ma ci abbia tenuto a renderli pubblici con il massimo clamore e a nome dei suoi colleghi. Come a voler “mandare un messaggio” a non si sa chi sul contenuto e la fermezza delle intenzioni del C.S.M..

In queste condizioni, la sentenza che ho appena commentato, oltre a destare le perplessità tecniche che ho evidenziato, è giunta come una condanna ampiamente annunciata e indebitamente anticipata.

Altra sorprendente condotta ha posto in essere il Vicepresidente del C.S.M. Nicola Mancino, che presiedeva il collegio giudicante che ha emesso la sentenza De Magistris. Egli, violando suoi specifici doveri di riserbo (forse “difesi” anche dai precetti di cui all’art. 326 del codice penale, a seconda che si ritenga o no coperta da dovere di segreto d’ufficio la camera di consiglio della Sezione Disciplinare del C.S.M.), non appena pronunciata da lui stesso la sentenza in questione, ci ha tenuto a dire ai giornalisti che essa è stata adottata all’unanimità.

Nessuna di queste condotte è stata oggetto di biasimo specifico (almeno noto all’esterno) da parte di tutti gli altri componenti del C.S.M., né alcuno dei consiglieri a nome dei quali Vacca e Mancino hanno “esternato” ha ritenuto di smentirli o di esigere da loro chiarimenti e scuse.

L’altro aspetto della vicenda da considerare è l’atteggiamento mantenuto dall’Associazione Nazionale Magistrati e di tutte le sue correnti, consistito nel:

1. rifiutarsi ostinatamente, a livello centrale, di prendere una qualunque posizione sulla vicenda;

2. emettere, a livello locale, un paio di comunicati palesemente ostili a Luigi De Magistris, isolandolo pubblicamente;

3. quando la Procura Generale e il C.S.M. hanno avviato le loro pratiche, dire che bisognava tacere e attendere la sentenza;

4. quando è stata pronunciata la sentenza, dire che bisognava tacere e attendere la motivazione;

5. quando è arrivata la motivazione, tacere e basta, imboscandosi in un silenzio irreale.

Tutto ciò che scrivo qui e molto altro l’ho già scritto più volte a tutte le mailing list di tutte le correnti dell’A.N.M., pregando tutti i colleghi di avere il coraggio e la dignità di prendere una qualsiasi posizione di merito sulla vicenda e sulla sentenza e, per quanto possa sembrare assurdo, NESSUNO mi ha risposto né ha speso alcuna parola sul “caso De Magistris” (mistificazione politica creata per nascondere il “caso Calabria”), che, nella magistratura associata, è diventato, dunque, un assurdo tabù.

Evidente mi appare, nella sua tragicità, il significato della impossibilità dei vertici dell’A.N.M. e di tutte le correnti di prendere una qualunque posizione su una vicenda tanto cruciale così come evidente risulta, conseguentemente, la definitiva perdita di ogni credibilità da parte di chi, rassegnandosi alle ovvie conseguenze “politiche” di questo silenzio, ne confessa implicitamente la natura necessitata.

Quest’ultimo aspetto della vicenda è di particolare rilievo, perché denuncia clamorosamente che la magistratura nel suo insieme ha sacrificato l’indipendenza dei singoli magistrati a logiche politiche molto preoccupanti.

Sul punto, con riferimento ai rapporti fra le correnti dell’A.N.M. e la politica, preoccupa peraltro:

- che il ministro Mastella, l’indomani del suo insediamento, abbia incontrato tutte le correnti e il giorno dopo abbia nominato i vertici di numerosi uffici del suo Ministero scegliendo cencellianamente proprio importanti esponenti delle correnti medesime;

- che anche autorevoli colleghi delle correnti un tempo “di opposizione” (per esempio Magistratura Democratica) abbiano accettato quegli incarichi e ancor più che li abbiano mantenuti quando il Ministero Mastella andava con evidenza in una direzione che avrebbe dovuto ricevere dai magistrati più critiche che consensi (questa situazione è stata ricostruita sui media come la c.d. “pax Mastelliana”, si può immaginare con quale danno per la credibilità della magistratura associata);

- che una delle correnti cosiddette “progressiste” dell’A.N.M. (il Movimento per la giustizia) abbia ritenuto opportuno candidare e fare eleggere al Comitato Direttivo Centrale dell’Associazione un collega che è stato per dieci anni consecutivi – fino al 2005: dunque, in epoca recentissima – Presidente di una Regione (le Marche);

- che proprio questo stesso collega – Vito D’Ambrosio – sia stato designato (certamente in maniera del tutto legittima: non è questo che è qui in discussione) per sostenere l’accusa nel procedimento disciplinare a carico di De Magistris, chiedendo per lui addirittura una pena superiore a quella pur già gravissima poi inflittagli.

Appare evidente, infine, che ove una qualche attenzione ancora vi sia nella magistratura al concetto di “indipendenza”, esso è riferita solo alla magistratura nel suo insieme e non anche ai singoli magistrati (ciò che è accaduto con i colleghi De Magistris e Forleo dà prova evidente di quanto gravemente vulnerata sia l’indipendenza c.d. “interna” dei magistrati).

Mentre è evidente che ciò che serve al Paese è l’indipendenza “dei magistrati” (di ogni singolo magistrato), che è cosa del tutto diversa dall’indipendenza della “magistratura”.

L’indipendenza della magistratura senza l’indipendenza dei magistrati si trasforma, infatti, soltanto in un privilegio corporativo e nello strumento di un potere che non serve il Paese – dal quale, infatti, è sempre più lontano e meno apprezzato – ma sé stesso.

in Micromega 2/2008xxx

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giovedì 5 giugno 2008

De Magistris - La Procura di Salerno evidenzia le attività poste in essere per fermarlo



Da "Quotidiano.net"

L’inchiesta nei confronti del pm era stata avviata su denuncia di magistrati e altri soggetti coinvolti nell’inchiesta “Toghe lucane” di cui De Magistris è titolare a Catanzaro

Catanzaro, 4 giugno 2008 - La Procura della Repubblica di Salerno ha chiesto l’archiviazione nei confronti di Luigi de Magistris, sostituto procuratore della Repubblica presso il tribunale di Catanzaro, nell’ambito dell’inchiesta avviata nei suoi confronti su denuncia di magistrati e altri soggetti coinvolti nell’inchiesta «Toghe lucane» di cui il pm in servizio nel capoluogo è titolare.xxx


La maxi-inchiesta condotta nei confronti del pm De Magistris dalla Procura salernitana, competente per reati a carico dei magistrati del distretto catanzarese, per i reati di calunnia, abuso d’ufficio e rivelazione di segreto d’ufficio, che ha avuto ad oggetto le condotte del magistrato nelle inchieste «Poseidone», «Why not» e «Toghe lucane» è durata diversi mesi, è stata condotta dal Reparto operativo del Comando provinciale dei carabinieri di Salerno, e ne sono titolari il procuratore della Repubblica di Salerno Luigi Apicella ed il sostituto procuratore Gabriella Nuzzi, e si è conclusa con l’accertamento dell’infondatezza delle denunce e degli esposti presentati contro De Magistris.

Nelle circa 1.000 pagine della richiesta di archiviazione, si parla infatti di «insussistenza di illegittimità sostanziali e/o procedurali penalmente rilevanti ovvero di condotte abusive addebitabili nell’esercizio delle funzioni giudiziarie del De Magistris», e si sottolineano, invece, «i risultati investigativi ottenuti, la natura e la cadenza degli interventi subiti a causa della intensità ed incisività delle sue indagini; il complesso materiale probatorio acquisito ha consentito di riscontrare la bontà della sua azione inquirente, nonchè di ricostruire la sequenza ed il contenuto degli atti procedimentali appurandone la correttezza formale e sostanziale».

“Allarmante commistione”

«Il contesto giudiziario in cui si è trovato ad operare il pm Luigi De Magistris negli anni della sua permanenza a Catanzaro appare connotato da un’allarmante commistione di ruoli e fortemente condizionato dal perseguimento di interessi extragiurisdizionali, anche di illecita natura». Lo afferma la Procura della Repubblica di Salerno, nel provvedimento con cui ha chiesto l’archiviazione nei confronti di De Magistris.

I magistrati titolari dell’inchiesta evidenziano nel provvedimento di richiesta di archiviazione «la pressante attività di interferenza alle indagini posta in essere dai vertici della Procura della Repubblica di Catanzaro, e resasi sempre più manifesta con il progressivo intensificarsi delle investigazioni da parte del pm De Magistris. Alle continue ingerenze sull’attività inquirente è risultata connessa, secondo una singolare cadenza cronologica - è scritto ancora nel provvedimento - la trasmissione di continue denunce e segnalazioni agli organi disciplinari ed alla Procura di Salerno».

Nella richiesta di archiviazione si legge ancora che «dagli accertamenti investigativi condotti sono emersi fatti, situazioni concorrenti a delineare il difficile contesto ambientale nel quale De Magistris si è trovato a svolgere le funzioni inquirenti, i legami tra i vertici dell’Ufficio giudiziario di Catanzaro, difensori ed indagati, gli interessi sottostanti alle vicende oggetto dei procedimenti da lui trattati, le condotte di interferenza ed ostacolo al suo operato. Difficile contesto ambientale reiteratamente denunciato dal pm nelle sedi istituzionali».

Secondo la Procura di Salerno, «le reiterate ed approfondite audizioni del dottore De Magistris, lo studio delle relazioni che, nel tempo, hanno accompagnato le sue attività investigative, l’esame delle numerose fonti dichiarative assunte e del materiale documentale acquisito a riscontro hanno consentito di ricostruire in punto di fatto il contesto storico-ambientale in cui egli ha operato negli anni della sua permanenza presso la Procura della Repubblica di Catanzaro, l’oggetto delle sue indagini, le ragioni delle pressioni ed interferenze subite all’esterno e all’interno di un ambito giudiziario risultato fortemente condizionato dal perseguimento di interessi extragiurisdizionali, anche di illecita natura».

I due magistrati di Salerno scrivono inoltre che «l’oggetto di indagini svolte da De Magistris, coinvolgenti pubblici amministratori, politici, imprenditori, professionisti, magistrati, rappresentanti delle forze dell’ordine, le tecniche investigative impiegate, i risultati derivati dagli atti di indagine esperiti hanno finito, nel tempo, per esporre il sostituto procuratore di Catanzaro ad una serie articolata di azioni ostative al suo operato. Tra queste si inseriscono le svariate denunce in sede penale e le segnalazioni disciplinari di soggetti indagati e/o difensori, alle quali sono seguite interpellanze, interrogazioni parlamentari, ispezioni ministeriali riguardanti le più rilevanti indagini condotte dal magistrato nei due periodi di permanenza a Catanzaro».

Dopo quasi un anno di indagini, secondo la Procura di Salerno si è pervenuti «ad un quadro ampio e completo dell’attività inquirente svolta da De Magistris e dalla polizia giudiziaria che lo ha coadiuvato, del contesto ambientale in cui ha operato, delle pressioni ed interferenze subite a causa dell’oggetto delle sue inchieste, delle iniziative adottate per determinarne il definitivo allontanamento dalla sede di Catanzaro e l’esautorazione dei poteri inquirenti».

Con riferimento all’inchiesta «Toghe lucane», la Procura di Salerno esprime «un giudizio di esclusione della configurabilità, in punto di fatto e di diritto, dei delitti di calunnia e diffamazione da parte del pm De Magistris». Le indagini effettuate farebbero emergere, al contrario, «l’evidente infondatezza e strumentalità delle gravi denunce presentate contro i magistrati di Potenza Iannuzzi, Pavese e Montemurro, nonchè del pm di Catanzaro De Magistris, con l’obiettivo di minare in concreto l’attendibilità di fondamentali fonti dichiarative accusatorie, screditarne la credibilità personale e professionale, esautorare il pubblico ministero procedente dallo svolgimento di eventuale, ulteriore e più incisiva attività investigativa».

Vedasi anche "La Repubblica.it"xx
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lunedì 2 giugno 2008

Alexander Stille - La libertà di informazione in Italia

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Rete4: "Il Detective incaricato di chiudere il caso è l'assassino"


Dal Blog "Voglio Scendere", un pezzo di Marco Travaglio:

-/-Bene ha fatto il Consiglio di Stato ad annunciare ieri, a Borsa chiusa, i suoi verdetti sulle sette cause del caso Europa7. Ma ha fatto malissimo a non pubblicare le sentenze (che dovrebbero essere note martedì), limitandosi a un comunicato scritto in ostrogoto, incomprensibile anche agli addetti ai lavori. Solo il giulivo Confalonieri finge di sapere tutto e canta vittoria, probabilmente per rassicurare gli azionisti in vista della riapertura dei mercati dopodomani, dopo il lungo week end festivo.xxx

Ma, da alcuni passaggi del comunicato, parrebbe avere ottimi motivi per preoccuparsi. Poi, certo, a metterlo di buonumore è la notizia che, a quanto pare, ad assegnare le frequenze a Europa7 dovrebbe essere proprio il padrone di Rete4 che le occupa senza concessione: Berlusconi. Infatti il Consiglio di Stato sancisce “il dovere del Ministero di rideterminarsi motivatamente sull’istanza di Europa7 intesa alla attribuzione delle frequenze… anche in applicazione della sentenza della Corte di giustizia (europea) del 31 gennaio 2008”.

Traduzione (provvisoria): il governo Berlusconi, tramite il sottosegretario ad personam, anzi ad aziendam, Paolo Romani, dovrà finalmente consentire a Europa7 di trasmettere in chiaro su tutto il territorio nazionale con le apposite frequenze. E che la sentenza non sia proprio favorevole a Mediaset, lo si desume anche dal fatto che, per evitare contraccolpi sul mercato azionario, è stata annunciata di sabato. Ora non vorremmo essere nei panni del Cainano: già lo immaginiamo aggirarsi insonne in una delle sue numerose ville, attanagliato dal dilemma amletico: salvare un’altra volta Rete4 mettendosi contro la Costituzione, la Consulta, la Corte e la Commissione europea, le regole comunitarie e attirando sull’Italia una supermulta, o rispettare le leggi e le sentenze almeno una volta nella vita? Non per nulla, fino all’altro giorno, il governo Mediaset aveva tentato di risolvere la faccenda al solito modo: l’ennesimo emendamento-condono salva-Rete4 (ritirato solo dopo l’ostruzionismo di Idv e Pd) imperniato su un antico principio giurisprudenziale della scuola arcoriana: chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato, scurdammoce ‘o passato e pure le sentenze italiane ed europee.

Le cause intentate allo Stato dall’editore Francesco Di Stefano dinanzi al Tar e poi al Consiglio di Stato sono sette. Tre, più secondarie, riguardano la seconda tv del gruppo, 7 Plus; tre (più una “doppia” che sarebbe lungo spiegare) investono la rete principale Europa7.

1) La prima è sul ricorso contro l’abilitazione a trasmettere in “fase transitoria” senza concessione rilasciata a suo tempo a Rete4 dal decreto 28/7/1999 del governo D’Alema. Il Tar e ora il Consiglio di Stato ritengono il ricorso inammissibile, ma ormai la questione era superata dalla nuova abilitazione data da Gasparri nel 2004 e dalla sentenza europea che boccia tutte le leggi italiane basate sulla “fase transitoria” a partire dal ’94.
2) Europa7 chiedeva al governo di rispondere pro o contro le proprie istanze. Su questo, il Tar le dà ragione: o il governo revoca la concessione, o dà le frequenze. Mediaset fa ricorso. Ieri il Consiglio di Stato l’ha respinto, intimando al governo di “rideterminare le frequenze” chieste dalla tv mai nata e “applicare la sentenza” europea.
3) Europa7 chiede allo Stato le frequenze per Europa7 e i danni fin qui subiti per la mancata partenza dell’emittente (circa 3 miliardi). Il Consiglio di Stato chiede alla Corte europea se le norme italiane pro-Rete4 e anti-Europa7 siano compatibili con quelle comunitarie. La Corte risponde il 31 gennaio che no, la normativa italiana è incompatibile, dunque illegale, ergo va disapplicata: ubi maior, minor (cioè Berlusconi) cessat.

Ieri il Consiglio di Stato ha rinviato la decisione al 16 dicembre. Ma, in via provvisoria, ha respinto “in parte” le richieste di Europa 7. Che vuol dire? Che non le riconosce 3 miliardi di danni, ma un po’ meno? O che i danni saranno quantificati solo quando si saprà se il governo darà le frequenze? Pare di sì, visto che si “subordina” il risarcimento al “rideterminarsi” le frequenze applicando la sentenza europea. Ma quali ordini vengano impartiti precisamente al governo ancora non si sa. L’unico dato certo è che il governo dovrà depositare “i documenti” di ciò che farà “entro il 15 ottobre”. Ma che cosa esattamente debba fare, lo sapremo solo martedì. Per ora si sa che ora il conflitto d’interessi, da gigantesco, diventa mostruoso. E grottesco. Chi deve risolvere il problema è chi l’ha creato. Il detective incaricato di chiudere il caso è l’assassino.-/-xxx

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Emergenza Rifiuti: dopo che l'osso è spolpato, si ricorre alle competenze (ma pronti per nuovi bottini)

Walter Ganapini, neoassessore all'Ambiente della Regione Campania

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domenica 1 giugno 2008

Sandro Pertini - La Libertà e la Giustizia sociale sono valori inscindibili


Sandro Pertini

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Sandro Pertini, la nuova Resistenza



Dal sito Manupulite.it, un breve intervento di Sandro Pertini, Presidente della Repubblica; per l'audio fare clic qui:

"Oggi la nuova Resistenza in cosa consiste... ecco l'appello ai giovani: di difendere queste posizioni che noi abbiamo conquistato, di difendere la Repubblica e la Democrazia.

E cioè oggi ci vuole due qualità a mio avviso, cara amica, l'onestà e il coraggio...l'onestà...l'onestà...l'onestà.

E quindi l'appello che io faccio ai giovani è questo: di cercare di essere onesti, prima di tutto la politica deve essere fatta CON LE MANI PULITE! Non ci possono essere... se c'è qualche scandalo...se c'è...se c'è qualcheduno che dà scandalo...se c'è qualche uomo politico che approfitta della politica per fare i suoi sporchi interessi DEVE ESSERE DENUNCIATO SENZA ALCUN TIMORE!"

Sandro Pertini
(1896 - 1990)

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